Il libro del mese di novembre: Le stanze buie, di Francesca Diotallevi

Si possono coltivare le passioni in un tempo ingeneroso?
Qualcosa di torbido e inesprimibile affiora alla superficie di questo romanzo. Ed è indefinito, difficilmente afferrabile eppure persistente, come il profumo che porta addosso Lucilla Flores, protagonista di questa storia fosca e al tempo stesso delicata e malinconica. Francesca Diotallevi, con una capacità di raccontare fuori dal comune, ci porta in una piccola provincia del Piemonte della seconda metà dell’Ottocento, dentro la casa di un aristocratico dedito a vigneti e poco d’altro. Dove la servitù inganna il tempo di un lavoro sempre uguale con qualche ingenuo pettegolezzo, e dove arriva a servizio un maggiordomo che prende il posto del vecchio zio appena scomparso.
Ma nessun dio oscuro e severo sarebbe stato capace di tanto dolore e di tanta ingiustizia: verso una bimba innocente, e verso la moglie del conte, Lucilla, una donna con il volto «velato di oscurità», smarrita dentro un segreto che non le si addice, che non dovrebbe appartenerle, lei, la creatura più lieve, sospesa e innocente che si possa immaginare.
Le stanze buie è una dichiarazione d’amore alle passioni, alla poesia, alla bellezza della natura, a quel femminile che ci meraviglia ogni volta che si rivela a noi. La storia di un amore negato, la prepotenza di un mondo chiuso e meschino, capace soltanto di nascondere, di reprimere, di lasciare che esistenze intere si lascino coprire dalla polvere della storia senza riscatto e senza futuro.
Tra queste stanze ferite dal pregiudizio e dall’indifferenza, Francesca Diotallevi trova, però, una luce e una delicatezza quasi preraffaelita e in questo contrasto affila una lama che taglia sempre perfettamente. E mostra che la felicità non è nelle cose del mondo, se il tempo è ostile.

Francesca Diotallevi è nata a Milano nel 1985. È laureata in Scienze dei Beni Culturali. Tra le sue opere Amedeo, je t’aime (Mondadori Electa, 2015), Dentro soffia il vento (Neri Pozza, 2016), vincitore della seconda edizione del Premio Neri Pozza sezione giovani e Dai tuoi occhi solamente (Neri Pozza, 2018), candidato al Premio Strega e vincitore del Premio Comisso sezione giovani, del Premio Manzoni e del Premio Mastronardi. Le stanze buie, oggi ripubblicato in questa versione profondamente rivista, apparve, come suo romanzo di esordio, per Mursia nel 2013.

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Il libro del mese di settembre: La donna che decise il suo destino

Donna bellissima e indomabile. Figlia del marchese Trivulzio, tra gli uomini più ricchi di Lombardia, a sedici anni sfida la famiglia rifiutandosi di sposare il marito scelto per lei e convola a nozze con il principe Emilio Barbiano di Belgioioso, bello e maledetto, carbonaro e playboy nella Milano degli anni Venti dell’Ottocento. Passano pochi anni e decide di abbandonarlo perché non accetta di essere tradita, dando ovviamente scandalo. La Milano austriaca le sta ormai stretta. Comincia la sua carriera di esule e di finanziatrice di disperate spedizioni patriottiche. A Parigi, dopo aver vissuto qualche anno nell’indigenza perché l’Austria ha sequestrato i suoi beni (la aiuta l’eroe delle due rivoluzioni, il marchese di Lafayette che si innamora di lei), inaugura un salotto frequentato da scrittori, artisti e politici. Molti cadono ai suoi piedi, da Alfred De Musset a Franz Liszt, da Heinrich Heine a Honoré de Balzac, ma lei non va oltre il flirt. L’unica persona a cui si lega è lo storico François Mignet, che con i suoi articoli aveva fatto cadere Carlo X e salire al trono Luigi Filippo, il re borghese. Diventa il punto di riferimento, anche economico, di molti esuli, fonda giornali, collabora alla prestigiosa Revue des deux Monde, è tra le poche persone che si occupano dell’uomo in disgrazia, esule e prigioniero, che diventerà Napoleone III e che poi la deluderà. Si attira le invidie di altre salottiere e di patrioti italiani che vorrebbero si limitasse a scucire quattrini e a non occuparsi di politica. Torna in Italia e riorganizza i suoi possedimenti aprendo scuole per i figli dei contadini. Tutta la nobiltà insorge. Alessandro Manzoni la condanna: «Ma se li facciamo studiare chi coltiverà le nostre terre?». In vista del Quarantotto si traferisce a Napoli e raggiunge Milano subito dopo le Cinque giornate con un contingente di volontari napoletani. Organizza gli ospedali da campo durante la Repubblica Romana. Delusa dalla Francia che tradisce le aspirazioni italiane, si trasferisce in Anatolia, dove organizza una fattoria con criteri socialisti. Fa un viaggio, a cavallo, fino a Gerusalemme. Una notte attentano alla sua vita e rischia di morire. Quando finalmente l’Italia diventa una nazione, lotta perché migliorino le condizioni di vita dei più poveri e anche in questo caso si fa molti nemici. Così la donna che per tutta la vita ebbe il coraggio di battersi sempre per le sue convinzioni, morta esattamente 150 anni fa, si attirò una serie di fantasiose biografie. Vista con gli occhi di oggi, e alla luce delle moltissime lettere ritrovate, si conferma essere quella che forse un solo uomo dell’Ottocento, Carlo Cattaneo, vide: «La prima donna d’Italia».

Pier Luigi Vercesi è nato a Corteolona nel 1961. Inviato del Corriere della Sera, ha scritto numerose opere tra le quali Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017), Il naso di Dante (Neri Pozza, 2018), La notte in cui Mussolini perse la testa (Neri Pozza, 2019),  Il marineStoria di Raffaele Minichiello (Mondadori, 2017), Storia del giornalismo americano (Mondadori, 2005), Ne ammazza di più la pennaStorie d’Italia vissute nelle redazioni dei giornali (Sellerio, 2014). Ha, inoltre, realizzato numerosi documentari televisivi sulla Roma di Nerone, sulla Germania del Novecento e sulla Prima guerra mondiale. Per Neri Pozza cura la sottocollana dei Colibrì – Il Tempo Storico.

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Il libro del mese di maggio: Estate a Baden-Baden

«In un campo ampiamente attraversato come la letteratura della seconda metà del XX secolo, sembra improbabile che esistano ancora capolavori in attesa di essere scoperti. Eppure una decina di anni fa, rovistando in un bidone di tascabili usati dall’aria malmessa davanti a una libreria di Charing Cross Road, a Londra, mi sono imbattuta proprio in un libro del genere, Estate a Baden-Baden, che potrei annoverare tra i frutti più belli, originali ed entusiasmanti di un intero secolo di narrativa e paranarrativa». Così scrive Susan Sontag nella prefazione di questo sorprendente romanzo, la cui originalità sta nel modo in cui passa dalla narrazione autobiografica del mai identificato narratore, imbarcato in un viaggio nel desolato paesaggio sovietico contemporaneo, alla vita itinerante dei coniugi Dostoevskij.
Estate a Baden-Baden appartiene a un sottogenere di romanzo raro e particolarmente ambizioso: il racconto della vita di una persona di grande talento realmente esistita in un’altra epoca, intrecciato a una storia al presente, quella del romanziere che medita, cercando di accedervi sempre più a fondo, sulla vita interiore di un personaggio destinato a diventare non solo storico ma monumentale.
Oltre a narrarci le vicende di Fëdor Dostoevskij e della moglie Anna che – appena sposati – partono per un viaggio di quattro anni alla volta della Germania, dove lo scrittore russo sperimenterà la propria ossessione per il gioco d’azzardo, perdendo tutto nei casinò di Baden-Baden, Cypkin – che non vide mai pubblicata, nel corso della propria vita, una sola pagina della sua opera letteraria – ci offre anche un corso intensivo su tutti i grandi temi della letteratura russa.
È un romanzo, questo, dal quale si emerge purificati, scossi, fortificati, capaci di un respiro un po’ più profondo, e grati alla letteratura per ciò che può accogliere ed esemplificare.
La presente edizione dell’opera è corredata per la prima volta delle fotografie originali di Leonid Cypkin.

Leonid Cypkin è stato uno scrittore e medico russo, noto soprattutto per il suo libro Estate a Baden-Baden.

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Il libro del mese di aprile: La tigre di Noto, di Simona Lo Iacono

Questo romanzo narra di Anna Maria Ciccone, una donna e una scienziata che visse in un’epoca che le fu ostile, un tempo di ostinati pregiudizi e barbarie totalitarie.

Nata a Noto nel 1891, partì dalla sua Sicilia e arrivò a Pisa poco prima che scoppiasse la Grande Guerra per studiare fisica: unica donna del suo corso. Insegnò alla Normale e seguì per un’intera vita le traiettorie e le intermittenze della luce, perché la spettrometria era l’oggetto dei suoi studi. Studi che ebbero una vasta risonanza persino nel campo della nascente meccanica quantistica molecolare. Oggi diremmo che si impose in un mondo maschile. Ed è certamente vero. Oggi parleremmo della sua passione, della sua forza e del suo coraggio nel riuscire a salvare, nel 1944, i testi ebraici della biblioteca dell’università di Pisa dai nazisti che volevano requisirli e poi distruggerli.


La sua figura non è riconducibile, tuttavia, soltanto alle sue pionieristiche ricerche o alle sue impavide azioni. Con uno sguardo che attraversa il suo tempo, Simona Lo Iacono ritrae la vita di una donna capace di affermare in ogni ambito dell’esistenza la forza della sua fragilità.

Ne esce un romanzo che non si lascia definire, che ci costringe a convivere con una nostalgia tenace, il racconto di una geniale fisica e matematica che seppe mostrarsi al mondo con la compostezza e il pudore di chi, nel buio dell’universo, cerca di guadagnare sempre, con fede ostinata, un piccolo bagliore di conoscenza. Perché, parafrasando Goethe, è proprio quando le ombre sono più nere che riusciamo a scoprire il potere della luce.

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970, è magistrato e presta servizio presso il tribunale di Catania. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Le streghe di Lenzavacche (Edizioni E/O), selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega.

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Il libro del mese di marzo: Il maestro e l’infanta, di Alberto Riva

«Cosa sono esattamente queste cose che componete, maestro?» «Esercizi». «D’accordo, ma la musica dov’è?» «La musica è dentro di voi, maestà».

Nell’estate del 1720 un giovane compositore parte dall’Italia per arrivare a Lisbona, alla corte di re João v. Comincia così l’avventura umana e musicale di Domenico Scarlatti, figlio del grande Alessandro. Uomo mite e tormentato, per nulla sicuro del suo talento, capace di stare un passo indietro a tutto, anche a sè stesso. 

Il suo compito a corte è insegnare musica alla figlia del re, Maria Bárbara di Braganza, che andrà poi in sposa a Fernando di Borbone diventando regina di Spagna. Il rapporto tra Domenico Scarlatti e questa donna durerà per tutta la vita. E sarà la vera linfa, il vero snodo del talento del compositore napoletano. Le sue celebri Sonate, eseguite dai più grandi pianisti del Novecento, nascono come esercizi per le mani di Maria Bárbara. Il romanzo narra di questo sodalizio, di questo scambio tra maestro e allieva che si concluderà solo con la morte di Domenico Scarlatti. Un sodalizio in nome della musica che è anche il racconto di un’epoca di guerre, rivalità tra famiglie reali europee, complotti, poteri contrapposti.

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Côte d’Azur – dove andavano i ricchi quando volevano divertirsi sul serio

Mary S. Lovell

Ancora oggi la Costa Azzurra è sinonimo di glamour. Ma prima che la democratizzazione dei tragitti in aereo rendesse accessibili certe mete, la Costa Azzurra aveva un’aura di sofisticatezza e ricchezza alla portata solo dei più abbienti. Per i lettori di riviste di cinema o delle rubriche di pettegolezzi mondani, era un mondo favoloso di privilegi ed eccessi popolato da celebrità, membri delle famiglie reali europee o star di Hollywood, che eleggevano residenza o soggiornavano per le vacanze in meravigliose ville bianche ombreggiate dai pini sulla costa del Mediterraneo.

Côte d’Azur racconta la storia di una di queste ville, l’opulento Château de l’Horizon, costruito nel 1932 tra Cannes e Antibes per la ricca attrice americana Maxine Elliott, che vi ospitò numerosi amici, tutti dotati di ricchezza, bellezza, prestigio o fama. Nel glorioso periodo tra le due guerre, se eri uno dei fortunati ospiti, ti sedevi a tavola con l’Aga Khan, Winston Churchill o il duca di Windsor, e le signore che scendevano le scale in abiti Balenciaga per bere l’aperitivo con voi potevano chiamarsi Wallis Simpson, Rita Hayworth o Coco Chanel, mentre Noel Coward suonava e cantava per intrattenere i personaggi di riguardo. Dopo il 1945 la dimora cambiò proprietario, che portò con sé un nuovo gruppo di protagonisti: Ali Khan, che riempì la piscina con litri e litri di profumo, forse per addolcire lo sfortunato matrimonio con Rita Hayworth, ricordato ancora oggi come uno dei più pretenziosi della Riviera francese, con Gianni Agnelli e la sua amante Pamela Digby (più tardi Harriman, cortigiana e prima ambasciatrice americana in Francia), Aristotle Onassis, Errol Flynn e i Kennedy tra i visitatori.

In realtà questi personaggi tanto in vista, che gustavano quanto di meglio la vita aveva da offrire, in termini di privilegi ed eccessi, avevano gli stessi problemi di chiunque altro: il fallimento di una relazione, una storia d’amore finita male. I drammi privati e gli scandali pubblici causavano le stesse sofferenze ai miliardari e alle persone normali che rincasavano con la paga settimanale in una busta marrone ogni venerdì sera.

Anche se esiste ancora, la splendida villa bianca progettata dall’importante architetto Art Déco Barry Dierks è ormai appena riconoscibile, essendo stata integrata in un massiccio palazzo arabo rosa, circondato da alte barriere di sicurezza per scongiurare l’eventualità che un passante curioso intraveda il re saudita che ora ne è il proprietario, e che vi soggiorna per un giorno o due ogni dieci anni.

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La mia Milano non è una cartolina

Flavio Villani

Ho iniziato a scrivere storie crime ambientate a Milano per due ragioni: la prima, la più ovvia, è che a Milano sono nato e ho vissuto gran parte della mia vita. La conosco nei dettagli. Ce l’ho incollata addosso come un abito. Un abito molto usato e confortevole. Mi ci sento a mio agio. La mia Milano non è una cartolina o una guida turistica: la mia vita ci si riflette come in un vecchio specchio di casa.

La seconda, meno ovvia, è che Milano è una città perfetta per il genere letterario che mi piace frequentare, il noir, ma è anche adatta alla mia scrittura. A tale proposito mi si conceda di utilizzare una metafora pittorica, una sorta di schema interpretativo per chiarire a sommi capi come la mia scrittura si intoni a Milano e viceversa: mutuando il concetto dalla pittura, considero la mia scrittura “tonale”; una scrittura dominata dall’attenzione ai chiaroscuri, che siano riferiti agli ambienti o ai caratteri dei personaggi. Ogni oggetto, ogni carattere, è modificato dalla luce incidente sulla sua superficie; la luce evidenzia e nasconde, crea nuance, proprio come avviene sulla tavolozza di un pittore. Questo tipo di scrittura si oppone a scritture fatte per contrapposizioni assolute di “timbri” diversi, colori puri, assenza di sfumature. Nella prima tra mondo circostante e osservatore vi è un continuo scambio, un continuo influenzarsi a vicenda. Nella seconda il mondo rappresentato è la proiezione di un’idea che viene gridata senza mezzi termini. Il nero è nero, il bianco è bianco, non c’è margine per l’infinita tonalità dei grigi.

Ebbene, Milano per me è una città tonale, fatta di chiaroscuri, una città notturna: d’inverno la luce è filtrata dalla foschia che cala sulla città alla sera, d’estate i colori sfumano nella caligine del mezzogiorno, sotto il cielo lattescente d’umidità.

Ne La banda degli uomini ho ricostruito la Milano degli anni ’30, rappresentandola così, in chiaroscuro, in sfumature di bianco e nero, nelle gamme dei grigi e nelle nuance terrose che si ritrovano nei paesaggi urbani di Mario Sironi. In questo romanzo ho portato alle estreme conseguenze la mia propensione a raccontare il passato. Per farlo ho frequentato i luoghi che ancora portano i segni di quell’epoca: Città Studi, con i suoi viali alberati, le basse costruzioni circondate da muri di quelli che un tempo erano i moderni istituti della Regia Università, per poi procedere verso il razionalismo dei palazzi di via Teodosio e le case popolari di via Porpora, e, verso est, Lambrate, all’epoca un borgo di campagna, sfiorato appena dalle ultime propaggini della città. Frequentando quell’epoca ho scoperto luoghi che non esistono più, come il Miralago, un lago artificiale tra piazza Udine e via Feltre. I milanesi, quando le vacanze erano un lusso per pochi, ci arrivavano in tram, per passare ore spensierate affittando barchette a remi, mangiando al ristorante affacciato sul lago, prendendo il sole sui prati. Non avevo idea della sua esistenza, e non ricordo come l’abbia scoperto, so solo che quel luogo nel ’40 è stato teatro di un clamoroso omicidio, e che alla fine della guerra vi furono trucidati dei partigiani. Almeno, così si racconta. Il lago è stato interrato subito dopo la guerra. Forse non rendeva come un tempo, la gente, ricordando quelle storie nere, non ci andava più. Adesso su quell’area sorgono un enorme supermercato, un giardino e il commissariato di zona, e nessuno sembra ricordarsi della sua esistenza. Ma troppi fantasmi s’aggirano da quelle parti, troppi per non raccontarlo.

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Tutti i racconti di fantasmi sono simili, ma ogni fantasma è diverso a modo suo.

Roberto Cotroneo

È proprio inevitabile che le famiglie stiano comode dentro i romanzi. Per certi versi il genere del romanzo nasce proprio per questo: per raccontare un mondo borghese, figlio della rivoluzione industriale. E se è vero che sulle famiglie le aristocrazie hanno poggiato prestigio, ricchezza e potere, le borghesie, hanno invece messo, dolori e speranze, contraddizioni e passioni, ma soprattutto racconto interiore. Se poi è vero, per citare il celebre incipit di Anna Karenina, che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ma ogni famiglia infelice è infelice a suo modo», ecco spiegato il perché i romanzieri non fanno altro che girare attorno alle famiglie, e preferibilmente a quelle infelici (quelle felici si usano solo per le pubblicità dei biscotti).

Va detto che anche quando sembra non ci sia ombra di famiglia in un romanzo, e il protagonista è magari un sociopatico che non ha mai vissuto con nessuno per tutta la sua vita, non ci si deve lasciare ingannare: all’origine c’è un’assenza, c’è una privazione e dunque una sofferenza. E c’è anche quando la famiglia futura è minacciata da eventi contrari, come per i poveri Renzo e Lucia. Ma generalmente è tutta una storia di famiglie un po’ ovunque: le Bennet di Jane Austen, per non dire dei Buddenbrook, e persino i dolori dell’orfanotrofio di Oliver Twist è tutto un’assenza di famiglia. Poi certo, il capitano Achab non è tipo da moglie e figli e da cappone nel giorno del Ringraziamento, ma non dimentichiamoci che era un Quacchero, un calvinista e puritano, e la famiglia, alla fine era tutto. Si potrebbe continuare a lungo: tra famiglie immaginarie, e famiglie magiche come quelle dei Buendía di Márquez, oppure famiglie distratte e assenti come quella dei Caulfield, da cui Holden cerca di provare a fuggire in tutti i modi. Ma va detto che senza l’ossessione della famiglia il romanzo gotico non esisterebbe. È dentro le famiglie che bisogna andare a guardare, ma anche dentro le case, le dimore, le persone. I fantasmi, dopo tutto, sono dei familiari un po’ agé che non si allontanano mai dal luogo in cui hanno vissuto e tormentano i nipoti e pronipoti con apparizioni terrificanti. Terrificanti per i vivi, perché magari loro hanno solo il desiderio di tenere insieme le famiglie anche nei secoli dei secoli.

Ma ironia a parte. È del tutto evidente che una storia di fantasmi si debba basare su luoghi, possibilmente pieni di segreti, e di nuclei familiari che nascondono altre cose. Ed è da qui che sono partito scrivendo Loro: da una casa, fortemente voluta come luogo in cui far crescere una nuova famiglia. E da presenze inquietanti, che sono in quel luogo, e che in un certo senso lo rappresentano. Ma poi ognuno fa la sua parte, ognuno mette un pezzo di infelicità, ognuno si confronta con l’ignoto, in un modo sempre diverso. E più le famiglie appaiono felici, e più l’ignoto spalanca le finestre, urla con il vento, abbassa le luci, e rende le notti niente affatto tranquille.

Loro è un romanzo gotico, ma è un romanzo di romanzi, dove tutto porta a qualcosa che ha a che fare con il legame familiare più forte di tutti. E questo si può e si deve capire soltanto nel finale. Nella casa di vetro che racconta che ogni cosa è visibile, trasparente, ma solo in apparenza. Perché parafrasando Tolstoj: tutti i racconti di fantasmi sono simili, ma ogni fantasma è diverso a modo suo.

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Neve d’ottobre

Angela Nanetti

Si è sfilato la cinghia, e giu’sulle gambe…”

Vengo da un tempo in cui frasi come queste potevano essere pronunciate senza vergogna, quasi con naturalezza, un tempo in cui non pochi erano i padri che si sentivano autorizzati – “quando ci vuole ci vuole” – a farsi giudici e giustizieri dei propri figli. Talvolta però poteva succedere che gli occhi paterni diventassero ciechi, e allora la cinghia saliva e raggiungeva la schiena e le braccia chiuse a uovo, a proteggere la testa.

Le ire dei padri! Nessuno, che io sappia, le contestava, perché servivano non solo a correggere il figlio “storto”, con la coscienza di aver fatto la cosa giusta, ma a sbollire rabbie, frustrazioni e stanchezze, nei ceti più poveri anche l’alcool, di colui che era riconosciuto da tutti come il capo. “È un ribelle, non rispetta le regole, se lo merita!”  

Ma Giulio, il protagonista del romanzo, non è un ribelle, è un irriducibile. Fin da bambino fa parte di quella ristretta cerchia di eletti o di dannati caparbiamente fedeli a sé stessi piuttosto che alle regole, vantate dal padre come “il fondamento del vivere civile”. Regole che lui, giudice presso un tribunale locale, impone piu’ agli altri che a sé, nascondendo dietro il rigore e una sapienza giuridica formale il suo narcisismo inappagato, le sue ambizioni frustrate, i fallimenti e le ombre che lo tormentano.                                         

Inconciliabili il padre e il figlio, per l’irriducibile diversità di Giulio fatta di sensibilità profonda e di inquietudine, che lo spinge a ignorare il tempo e le convenienze e a cercare cieli, boschi e animali, unico habitat in cui si sente pienamente accolto, con un’adesione così totale da sfiorare lo sperdimento. Una diversità la sua che richiederebbe, a fargli da guida, l’attenzione vigile e amorosa che ha per lui la madre, non la durezza venata di disprezzo che padre gli riserva e che porterà alla tragedia. La quale, dapprima sottaciuta e poi sminuita fino a essere rimossa, accentuerà l’estraneità di Giulio e scaverà una incrinatura sempre più profonda nelle relazioni familiari fino alla loro deflagrazione. Il primo a entrare in crisi è il rapporto tra i fratelli e Vittorio, il fratello minore che lo aveva idolatrato, finirà per vederlo con gli occhi stessi del padre, un dio fallito, un pianoforte scordato, uno che ha sperperato da irresponsabile i molti doni ricevuti.                                                

Egli si renderà conto troppo tardi, nel breve tempo che trascorrono insieme, forse un tempo finale, che Giulio è fatto di una materia diversa, che le stimmate sul suo corpo hanno reso più dolente e sensibile: la grande Storia gli passa vicino, ma lui non sembra coinvolto in quella macina che trita uomini e popoli, quanto piuttosto nella storia piccola, che si esercita nel quotidiano con la violenza sui deboli e la cecità del caso. Una diversa materia. La sua irrequietezza non ha niente della inquietudine insoddisfatta del padre e del fratello, non è un puer economicus  Giulio, né  lo sarà da adulto, è l’uomo dei legami disinteressati e duraturi, a cui rimane fedele: i boschi e i piccoli animali da proteggere,  il maso con la sua fatica quotidiana, la donna che ha scelto da bambino, quella creatura dura e fragile che il suo amore arriva a rendere luminosa,  la madre non dimenticata a cui porta gli unici fiori della sepoltura.                                                                                                                                                     

Così nel naufragio finale, dove quella lontana ferita  rimossa dalla famiglia torna protagonista, la silenziosa umanità di Giulio riaffiora misteriosamente fino a toccare chi è chiamato a prendersi cura di lui: i medici, l’ infermiera, la figlia adottiva  e il fratello stesso, per i quali una situazione vissuta come una difficoltà personale o un caso clinico da risolvere, si trasforma nella “seconda opportunità” che la vita talvolta offre, forse effimera come una nevicata d’ottobre o forse portatrice di un diverso futuro.

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Favola familiare

Bérengère Cournut

Due anni fa, quando Di pietra e d’osso è uscito in Francia, mi è stato chiesto se secondo me la letteratura consistesse nel rivisitare la propria vita. Ho avuto l’impulso di rispondere «no», tanto la letteratura è per me sinonimo di un altrove assoluto. Come lettrice sono assetata di universi stranianti, di scritture capaci di farmi penetrare in altre dimensioni dell’esistenza, di sguardi sulla realtà che siano sfalsati. Ecco perché leggo volentieri poesia o opere scientifiche più che romanzi, che troppo spesso mi sembrano narrazioni molto simili a come si svolgono le nostre vite, in qualunque epoca siano ambientati. Perché mi interessino, devono per forza far emergere da qualche parte l’inconsueto, per rivelarmi una realtà diversa da quella immediatamente percepibile. Da qui il mio amore per le leggende o i miti, che costringono i personaggi a incontri o situazioni in grado di rivelarli a se stessi o, perlomeno, trasformarli. Spingendomi anche oltre, dirò che dalla letteratura mi aspetto sempre, più che una rivelazione, una vera e propria «metamorfosi». Continue reading Favola familiare

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Uno scherzo del destino

Massimo Ortelio

La storia avvince fin da pagina uno. Sorridi incredulo: l’immacolata concezione nell’Inghilterra degli anni ’50?  Ma in fondo, perché no? E la narrazione ti cattura.

Bella come una Madonna in Technicolor (la bellezza non è forse un prodigio di per sé?) Gretchen racconta la sua vicenda, assurdamente verosimile, a Jean, inviata di un giornale di provincia. Jean non è bella, e lo sa. Ha una vita scialba e una madre scorbutica, una famiglia infelice, come sono spesso le famiglie “normali”. E conosce quella che appare ai suoi occhi come la famiglia ideale, i Tilbury: Gretchen e la figlia, accomunate da una bellezza abbacinante, e il marito orefice. Ma non è tutto oro quello che luccica.

Come sempre, sarà l’Amore il deus-ex machina. Sulla soglia dei quarant’anni, Jean intravede una promessa di felicità, il vero Piacere, dopo i “piccoli piaceri” che è abituata a centellinare con la parsimonia dei bisognosi. E inizia un nuovo giro di giostra, un imprevedibile gioco delle coppie…

Mentre lo traducevo, questo romanzo me ne ha fatto venire alla mente un altro. Jean è una piccoloborghese come Violet, la ricamatrice di Winchester di Tracy Chevalier. Sono grosso modo coetanee ed entrambe zitelle, queste due donne non più giovani in cerca di un tardivo riscatto sentimentale. Vivono esistenze opache in balia di madri dispotiche. Si innamorano entrambe di uomini più vecchi di loro, imbarcandosi in amori, all’apparenza, impossibili. Sono numerosi i punti di contatto fra le due storie, a partire dall’amore omosessuale al femminile, raccontato in entrambi i casi con efficacia ed eleganza.

Ma è diverso l’epilogo, che non svelerò, ovviamente.

Dirò solo che vi lascerà senza fiato. Clare Chambers racconta una tragedia come se fosse una commedia, con il tono sapientemente ironico che è la cifra della sua scrittura. Ci rammenta che il destino è pur sempre in agguato, che la vita vera, la vita reale è un’autrice spregiudicata che non si perita di mescolare, senza sosta, il registro funebre alla frivolezza.

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