All posts by Benedetta Banditori

Sangue e Onore

Più scandalizziamo, meglio è. Così la gente ci temerà mentre siamo vivi e non ci dimenticherà mai – mai – da morti“.

E così è stato, duca Valentino. La storia della famiglia Borgia, come d’altra parte tutta la storia, i personaggi e le famiglie del Rinascimento, sono e restano indimenticabili, e si prestano ad un così vario ventaglio di interpretazioni e punti di vista che non ci si stanca mai di leggerne e rileggerne le vicende, riflesse a seconda degli specchi che l’autore di turno propone.
Un po’ come con la mitologia, per me queste vicende sono come tornare a casa, dopo anni di letture e di studi, da ragazzina prima e da meno ragazzina poi. L’indimenticabile Lucrezia Borgia di Maria Bellonci resta un faro brillante e indiscusso per gli amanti di quel periodo storico, con cui quest’autrice stessa si è confrontata, anche se trovo che Sangue e Onore non sia un romanzo in particolare sulla figura di Lucrezia, ma più corale, sulla famiglia nel suo insieme e nei suoi singoli.
La Dunant è brava, perché in qualche modo riesce a non mettere giudizio – apparentemente – su una delle famiglie più controverse e chiacchierate della storia del mondo. Ci presenta una storia, una storia di emozioni, un affresco di caratteri molto ben definiti intersecati tra loro. La storia di una famiglia, dell’amore smisurato di un padre per i suoi figli, di una madre – Vannozza –  messa da parte per la ragion di Stato, ma non per questo meno madre e meno affezionata ai suoi figli. Il potere, la gloria. La bizzosa emotività di Rodrigo, che quando chiamano “Santo Padre” quasi viene da sorprendersi perché paradossalmente vien quasi da dimenticarsi che è il papa; l’ inarrestabile ascesa di Cesare, che capitolo dopo capitolo diventa sempre più violento, sempre più crudele, sempre più ambizioso (mi si conceda un paragone cinematografico fantascientifico: l’evoluzione di Cesare non ricorda quella di Anakin Skywalker verso il lato oscuro? Con in fondo un Valentino che gela il sangue, tutto di nero vestito, proprio come Darth Vader…); il progressivo disincanto di Lucrezia, che alla fine accetta l’unica soluzione possibile per liberarsi dal giogo di una famiglia amata ma che diventa un fardello e un groviglio di rancori (“Il duca e sua sorella si amano e si odiano: questa è l’idea che serpeggia tra la folla di osservatori mentre il pontefice, ignaro, li ammira raggiante“); i personaggi di contorno, che danno colore e spessore (quanto è spagnola e napoletana la bella Sancha dal sangue capiente?).
Colpisce anche, come figura sempre presente sullo sfondo, l’occhio severo di Burckardt, diviso tra la silenziosa disapprovazione e la fedeltà ossequiosa, intento a redigere quel Liber Notarum che sarà una vera e propria miniera per gli storici.

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La porta

Devo fare una premessa necessaria: io detesto gli scrittori giapponesi. Quella giapponese è una cultura in cui non mi ritrovo, in cui non trovo niente di affascinante o che mi incuriosisca: nemmeno il buon Murakami, considerato un grande scrittore del nostro tempo, è riuscito a farmi cambiare idea. Per cui quando mi sono resa conto che il nuovo Neri Pozza da leggere per il Bookclub era Soseki (dopo Remarque, per giunta!!), tra me e me il primo pensiero è stato: “Noooo, che peccato!!”. E’ un libro che, visto in libreria, mai e poi mai avrei comprato.
Ho cercato anche di non partire prevenuta, di dargli una chance, davvero, ci ho provato.
Ma.
Questo romanzo è la quintessenza di tutto quello che non mi piace della letteratura giapponese.
Già da quella prima scena nell’engawa (e ci sarebbe molto, moltissimo da dire anche su tutti quei continui termini giapponesi non tradotti in quanto intraducibili, che creano già distacco ed incolmabile lontananza culturale) il tono del romanzo è segnato: la lentezza, il silenzio, la remissività, la noia mai apertamente dichiarata, la mancanza di gioia, il subire passivo della vita, degli eventi, le emozioni annacquate, o ridimensionate, o messe a tacere; l’ineluttabilità del tempo che scorre vuoto e ripetitivo, come i discorsi di questa coppia forse affiatata a suo modo, si, ma triste, spenta, senza passione, senza guizzi, di nessuna curiosità (anzi, spesso fonte di impazienza e fastidio) per il lettore. Tutti quei dettagli descritti con tale meticolosità che pensi debbano essere per forza funzionali alla storia (“questo me lo starà dicendo perché è importante più avanti”, pensi a più riprese), e invece no, sono messi li per riempire pagine, o per sottolineare una volta di più la noia, l’ordinarietà di queste vite monotone e pavide, che si lasciano scuotere da ogni minima variazione della loro routine…
Il protagonista Sosuke poi raggiunge veramente vette insuperate di inadeguatezza, inettitudine, lentezza, mancanza di spina dorsale, pigrizia, frustrazione, sporcizia (non si può non far caso a quanto poco e malvolentieri si lavi) mancanza di curiosità, di vivacità, di stimoli. E non basta come giustificazione la presunta “colpa” commessa all’inizio della storia con Oyone (ma quale colpa, poi? si sono innamorati e lui l’hai portata via a Yasui? questa, in Giappone, è una colpa per cui ripudiare e isolare completamente due persone? ) : Sosuke è l’antiuomo, l’antieroe, le sue debolezze per me non sono state fonte di empatia, ma di incredulità e fastidio. Tenta un riscatto, alla fine, mettendosi alla prova nel monastero sulle montagne, ma uscire dal suo monotono guscio iperprotetto non fa che metterlo in modo spietato di fronte alla sua inadeguatezza, alla sua completa incapacità di gestire se stesso, i rapporti con altre persone (è palese come Sosuke sia sempre invariabilmente a disagio in presenza di altri, fatta eccezione per Oyone), e la capitolazione (in cui si trova anche la spiegazione del titolo) è incredibilmente avvilente e senza speranza: “Lui sembrava destinato a restare a lungo davanti a quella porta chiusa. Non era giusto né ingiusto. Ma se non aveva modo di oltrepassarla, andare apposta fin lì era stata un’azione contraddittoria. Si voltò indietro: non aveva il coraggio di tornare da dove era venuto. Guardò avanti: i battenti inamovibili della porta gli nascondevano per sempre la vita che si apriva al di là di essa. Non era un uomo in grado di superare quella barriera, ma neanche capace di rinunciarvi serenamente. Era un infelice che poteva soltanto restare impietrito davanti ad essa, in attesa che i giorni trascorressero.”.
Bocciato!!

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Tre camerati

“Il cognac fluiva dorato, il gin brillava come acquamarina e il rum era pura vita. Rimanemmo immobili sulle sedie del bar mentre la musica gorgogliava e la vita, chiara e forte, scorreva possente nel nostro petto. Il bancone del bar era il ponte di comando della vita e noi filavamo rombando verso l’avvenire.”

“Solo gli stupidi vincono nella vita; gli altri vedono troppi ostacoli e si fanno prendere dall’insicurezza ancora prima di cominciare. In epoche difficili la semplicità è il bene più prezioso, un mantello magico che nasconde i pericoli nel quale l’intelligentone si butta come se fosse ipnotizzato. Mai voler sapere troppo, Robby! Quanto meno si sa, tanto più è facile vivere. La conoscenza rende liberi, ma infelici. Vieni, brindiamo alla semplicità, alla stupidità e a tutto ciò che vi è connesso: all’amore, alla fiducia nel futuro, ai sogni di felicità, alla magnifica stoltezza, al paradiso perduto…”

“La disprezzava perché la invidiava. Non si faceva illusioni sulla vita e sapeva che bisogna tener duro per arraffare un po’ di quello che la gente chiama felicità. Sapeva anche che la si deve pagare a prezzo doppio e triplo. La felicità è la cosa più incerta del mondo e quella con il prezzo più alto.”

“Sorrise e si chinò su di me.
– Devi amarmi molto, Robby. Molto. Ho bisogno di molto amore. Non saprei cosa fare senza amore.
I suoi occhi mi tenevano avvinto, mentre il suo viso era sopra il mio, vicinissimo, ed era cangiante, aperto, animato da una forte passionalità.
– Devi tenermi stretta. Ho bisogno di qualcuno che mi tenga stretta. Altrimenti cado. E ho paura, sussurrò.
– Non si direbbe che tu abbia paura, replicai.
– Eppure sì. Fingo soltanto di non averla, ma sono spesso spaventata.
– Stai tranquilla, ti terrò stretta, assicurai sempre in quel dormiveglia irreale. – Saprò tenerti come si deve, Pat. Te ne meraviglierai.”

“Malinconici si diventa quando si riflette sulla vita; cinici quando si vede come la maggior parte delle persone la spreca.”

“Balzai in piedi, tanto mi parve irreale quella visione, come fosse di un altro mondo: il vasto cielo azzurro, le creste bianche delle onde e, davanti, la graziosa figura snella. Sentii l’immenso potere della bellezza e notai come esso sia più forte di qualunque passato sanguinoso e come debba essere più forte, perché altrimenti il mondo crollerebbe soffocato dalla sua tremenda confusione.”

“Avete notato che viviamo in un’epoca di autolesionismo? Che molte cose che si potrebbero fare non si fanno senza sapere esattamente perché? Oggi il lavoro, dal momento che tanta gente non ce l’ha, è diventato una cosa così enorme che schiaccia tutto il resto. Che bello qui! Erano anni che non vedevo questo spettacolo. Possiedo due macchine, un appartamento di dieci locali e i soldi non mi mancano, ma cosa ne ricavo? cos’è in confronto a questa mattinata estiva all’aria aperta? Il lavoro è una cupa ossessione accompagnata dall’illusione che un giorno cambierà. Invece non cambia mai. A che cosa riduciamo la nostra vita!”

“Nelle sale regnava un grande silenzio e nonostante i numerosi visitatori non si sentiva quasi una parola. Tuttavia mi pareva di assistere ad una grande battaglia, alla battaglia silenziosa di uomini schiantati che non volessero ancora arrendersi. Erano espulsi dai settori del loro lavoro, delle aspirazioni, delle professioni e ora entravano nel silenzioso mondo dell’arte per non abbandonarsi alla disperazione e all’immobilità. Il loro pensiero era sempre rivolto al pane, al pane e all’occupazione, ma venivano qua per sfuggire qualche ora ai loro pensieri e camminavano col loro passo strascicato , con le spalle curve di chi non ha meta: contrasto commovente, immagine desolata di quello che l’umanità può e non può raggiungere in migliaia di anni: le vette di opere d’arte immortali, ma non il pane sufficiente per ognuno dei propri fratelli.”

“Sul palco stava parlando un uomo tarchiato e robusto. Aveva una voce sonora, che penetrava senza sforzo fin negli angoli più lontani. Era una voce che persuadeva senza che si tenesse conto delle parole. E le sue parole erano facili da capire. L’uomo passeggiava libero per il palco con brevi gesti delle braccia, beveva ogni tanto un sorso d’acqua e faceva una battuta di spirito. Poi si fermava improvvisamente verso il pubblico e, con una voce squillante, lanciava come frustate una frase dopo l’altra, enunciando verità note a tutti, sulla miseria, la fame e la disoccupazione, trascinando l’uditorio con foga impetuosa e concludendo col grido furioso “Così non si può andare avanti!”
Il pubblico approvò fragorosamente con grida e applausi, come se si fosse già posto rimedio alla situazione. L’oratore, con la faccia lustra, attese. Poi con eloquenza ampia, convincente, irresistibile, incominciò a fare promesse su promesse, una vera pioggia di promesse, e davanti a tutta quella gente sorse un paradiso col suo fascino cangiante, una lotteria nella quale tutti i biglietti vincevano il primo premio e ciascuno trovava la sua felicità personale, il suo diritto e la sua vendetta.
Osservai gli spettatori. (…) Strano, per quanto fossero diversi, tutti i visi avevano la stessa espressione assente, lo sguardo assonnato e avido verso una lontana e nebulosa chimera. Quegli occhi erano vuoti e allo stesso tempo animati da una grande aspettativa, che spegneva critiche e dubbi, contraddizioni e problemi, la vita della giornata, il presente, la realtà. Quell’uomo lassù sapeva tutto, aveva la risposta pronta a ogni domanda, un aiuto per ogni bisogno. Era bello potersi affidare a lui, avere qualcuno che toglieva le preoccupazioni, era bello aver fede.”

“Alla vostra salute, ragazzi, perché siamo vivi, perché respiriamo, perché sentiamo la vita così profondamente che non sappiamo più cosa farcene”

“E’ più facile essere soli quando si è senza amore”

Imperdibile per gli appassionati di Hemingway, questo romanzo di Remarque, più conosciuto per Niente di nuovo sul fronte occidentale, è una piccola perla perfettamente costruita. Non manca niente: una bellissima, profonda, commovente e cameratesca (in senso proprio e figurato) amicizia tra uomini, fatta di bevute, di un comune passato di guerra, di un’attività portata avanti insieme, di una macchina – Karl – che sembra quasi un D’Artagnan per i suoi tre moschettieri, di riflessioni sulla vita, di sostegno e aiuto reciproco imprescindibile; una storia d’amore che cresce pian piano durante il dipanarsi del romanzo (quella che all’inizio è chiamata “la ragazza”, poi “la signorina Hollmann”, poi Patrice, poi solo Pat) in cui il protagonista trova una redenzione temporanea dal suo nichilismo; lo scorcio vivido della Berlino tra le due guerre, con la miseria e la disoccupazione e i disordini sociali che crescono – parallelamente alla storia d’amore – per tutta la storia fino a culmimare con l’assassinio di Gottfried e la vendita dell’officina (in certi passaggi colpisce come un pugno l’estrema attualità di un libro scritto nel 1936…); la miriade di piccoli personaggi secondari (dei quali però non si fa nessuna fatica a seguire le vicende) che rappresentano un’umanità variegata e dalle nature più disparate: il tirchio fornaio vedovo vessato dalla nuova compagna; l’oste Alfons che sembra quasi di vederlo, un omone tutto d’un pezzo ma dal cuore tenero; mamma Zalewsky e i vari abitanti della pensione (“i meschini”, nell’economia della storia); Antonio e i disperati del sanatorio; Rosa e le altre ragazze dell’International (il malfamato locale di ritrovo che, mutate mutandis, mi ha fatto venire in mente a più riprese il Leopold di Shantaram); e poi ancora il giovane Jupp, il dottor Jaffé, il pittore di morti Ferdinand Grau…
Tutto contribuisce a creare un puzzle che è anche una spirale in ascesa: la storia inizia in una situazione tutto sommato di serenità tranquilla e scanzonata (per quel che consente la guerra finita da poco) e man mano che il disagio sociale, le difficoltà economiche, l’amore tra Robby e Pat, la malattia di Pat stessa aumentano, il clima si fa via via più cupo, più pesante e angoscioso, improvvisamente il futuro – o la mancanza di prospettive per esso – fa paura e gli eventi sembrano stringersi intorno al protagonista (perfino i luoghi seguono una parabola simile: dalle strade battute in libertà da Karl, l’ampia officina, il mare per poi passare alle stanze chiuse ed infine al soffocante sanatorio isolato in montagna) fino al tragico epilogo che sembra spegnere definitivamente qualsiasi prospettiva.

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Dal ventre della balena

“Ogni tanto ho la sensazione che questo l’ho già vissuto e che ho già scritto queste queste stesse parole,
ma capisco che non sono io, bensì un’altra donna, che aveva preso appunti sui quaderni affinché io me ne servissi.
Scrivo, lei ha scritto, che la memoria è fragile e il corso di una vita è molto breve e tutto avviene così in fretta,
che non riusciamo a vedere il rapporto tra gli eventi, non possiamo misurare le conseguenze delle azioni,
crediamo nella finzione del tempo, nel presente, nel passato, nel futuro, ma può darsi che tutto succeda simultaneamente.
Per questo mia nonna Clara scriveva i suoi quaderni, per vedere le cose nella loro dimensione reale e per schernire la cattiva memoria.”
(Isabel Allende, La casa degli spiriti)

Questo romanzo è un omaggio.
O per meglio dire, una serie di omaggi incastrati e sovrapposti, che uniti tutti insieme creano un notevole coro in cui niente è fuori posto, e tutto scorre fluido in un ininterrotto gioco di echi e di richiami che si rincorrono dalla prima all’ultima pagina, come in cerchio. E’ un ossequio a due scrittori sudamericani che amo moltissimo: il Gabriel Garcia Marquez di Cent’anni di solitudine – Paradise Deep e il Gut sono in fondo una specie di nordica Macondo – e la Isabel Allende de La casa degli Spiriti (la casa di Selina è associabile a Le Tre Marie, e tutto il valore forte della memoria, delle leggende di paese e delle famiglie tramandate di generazione in generazione; e infine quelle figure di donne che muovono i destini di tutti); e mi è venuto in mente Verga, certo, e i suoi Malavoglia, in quelle generazioni di pescatori senza l’ombra di un’evoluzione sociale e di riscatto dalla miseria e dalla semplicità, fino alla fine, nonostante la scuola, l’ospedale e il sindacato.
Fili di discendenza si ricostruiscono attraverso il canto (le voci straordinarie di Callum ed Edith), attraverso l’odore sgradevole di pesce (tutti i discendenti diretti di Giudeo: Patrick, Eli, Abel) o attraverso il Dono:  in un villaggio in cui la fede religiosa segue quasi a caso il carisma del reverendo di turno, e in cui la morale è sempre un concetto più o meno astratto, le vere guardiane dei cancelli sono la Vedova Devine e sua nipote Mary Tryphena, verso cui tutti nutrono il timore reverenziale riservato a Ecate, custode dei Misteri (“La Vedova era minuta, asciutta come una cima di canapa, ma li aveva fatti nascere tutti, così come aveva aiutato a venire al mondo i loro figli. Era lei che vegliava i moribondi e lavava e preparava i morti. Sembrava la guardiana dei cancelli tra questo e l’altro mondo, e senza di lei non sarebbero mai riusciti ad andare avanti.”)
La storia di un amore principale nella trama, quello negato tra Mary Tryphena e Absalom Sellers (subito a pagina 45 un giovanissimo Absalom addenta e porge a Mary una mela, evidente simbolo biblico di tutti i mali che verranno); ma anche di tanti altri amori intorno, realizzati e felici a prova di ogni odio tra famiglie inscindibilmente legate (Callum e Lizzie, il dottor Newman e Bride, la Vedova Gallery e padre Phelan) oppure infelici, irricambiati o condannati (Giudeo in primis, Absalom e Ann Hope, Henley e Bride, Eli e Tryphie).
Il fil rouge delle memorie e della continuità è definito da luoghi e oggetti: la casa di Selina, il laghetto di Ralph il Negro, la prigione-magazzino del pesce di Giudeo, le scogliere tra Tolt Road e Paradise Deep; l’albero dei Kerrivan (simbolo della mai scomparsa vena pagana che anima il villaggio) e, sopra a tutto, la leggendaria Bibbia di Jabez Trim, passata di mano in mano per generazioni fino a tornare nell’oceano da cui era venuta per mano di Abel, che a sua volta chiude il cerchio iniziato col suo antenato Grande Bianco.
C’è una chiara evoluzione di tono, nel corso della storia. Mentre la prima parte si legge quasi tutta col sorriso sulle labbra, che in alcuni passaggi sfocia proprio in riso, ed è leggera e ironica e scanzonata anche nel descrivere drammi e tragedie; nella seconda parte l’atmosfera è più cupa, i destini più pesanti e sofferti, e i personaggi sembrano incastrati tra le leggende e la memoria che danno spessore a quello che sono e che vivono e un’evoluzione e un progresso che stentano ad arrivare, e che nonostante tutto continuano ad essere vissuti perlopiù come negativi.

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