Category Archives: Amici/Nemici

Buon vicinato

di Therese Anne Fowler

Come dei soldati che combattono la loro prima battaglia, spesso non sappiamo come reagire a una minaccia finché non ce la troviamo concretamente davanti. Saremo in grado di affrontarla con coraggio? O sceglieremo di scappare? Oppure di mettere in atto una manovra subdola? Decideremo di difenderci oppure capitoleremo e lasceremo che sia qualcun altro a determinare il nostro destino? Forse crediamo di conoscere la risposta a queste domande, ma la sicurezza ce l’avremo soltanto quando la battaglia sarà iniziata.

Nel mio nuovo romanzo, A Good Neighborhood, (Un bel quartiere, il titolo dell’edizione italiana), Valerie Alston-Holt, ecologista e residente da molti anni in un vecchio quartiere, Oak Knoll, si trova di fronte un avversario inatteso: il nuovo vicino, Brad Whitman, che ha appena acquistato una nuova casa per sé, sua moglie e la sua famiglia, e che per avere più spazio ha fatto demolire la casa preesistente e tutti gli alberi che crescevano sul terreno.

Valerie è nera e ha un figlio birazziale, quindi cerca di non formulare sui Whitman giudizi basati su idee preconcette; conosce fin troppo bene il male che idee del genere possono causare, perché ne è vittima da tutta la vita. Dal canto suo, Brad Whitman, bianco e ricco, è così sicuro di non nutrire pregiudizi da non averci mai riflettuto con attenzione ed è quindi convinto di essere amico di tutti.

Valerie cerca con grande attenzione di essere una buona vicina, mentre Brad si comporta senza alcun riguardo. Ma questa differenza non significa che siano destinati a diventare nemici: in fondo molte persone convivono pacificamente con vicini molto diversi da loro.

Quando si presentano, però, spesso i problemi nascono da questioni riguardanti oggetti di valore. In questo caso l’oggetto è una quercia antichissima che cresce nel giardino di Valerie, un albero il cui sistema radicale è rimasto danneggiato dalla costruzione della casa e della piscina dei Whitman e comincia a dare segnali di malessere. E le cose si complicano quando gli adolescenti delle rispettive famiglie si innamorano.

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La tigre di Noto

di Simona Lo Iacono

Un estratto del romanzo La tigre di Noto

Quando mi presentai al collegio delle suore Misericordiose, a Roma, era il 1915.

Il campanello stridette, arrochito. Dallo scalino su cui sostavo, sentii un risuonare metallico che valicava i chiostri e i corridoi.

Avevo poche cose con me. Una valigia di pelle, con dentro i ricambi d’abiti e due paia di scarpe. La cassetta delle lenti e dei materiali ignifughi. Un manuale sulle intuizioni di Albert Einstein, che avevo letto in treno per accertare se il tempo avesse davvero stretto parentela con la velocità e con lo spazio.

Era un settembre in fuga.

Nelle orecchie pulsava ancora il ritmo delle rotaie che dalla Sicilia mi avevano portato fin lì. Un vagone di terza classe stipato di famiglie, con i sedili cigolanti e appiccicosi, su cui sedevamo facendo dondolare le teste.

Sotto di noi sdirupavano i fianchi di Taormina, i valichi dello stretto, le bocche infernali di Scilla e Cariddi. Salire verso il continente era un viaggio che ci separava e ci allungava, mentre alle spalle ci lasciavamo l’isola, e ne sentivamo il calore, ma anche il dolore.

Tutto dava un lamento.

I pacchi stipati ai nostri piedi. I vasi di provviste che si sbeccavano contro i fiaschi. La gabbia in cui si consumava la lotta di due gallinacci in amore, pronti a ferirsi.

La suora mi sogguardò dallo spioncino, poi aprì con cautela, accertandosi che fossi Marianna Ciccone, la siciliana venuta a studiare matematica alla Sapienza. Si accomodi,

signorina, disse nello sferragliare di un groppo di chiavi. Mi segua.

Quando le porsi la mano mi sorrise, aveva la pelle liscia come quella di un neonato. Nel suo sguardo, invece, lessi riguardo e compassione. Che una donna sola si avventurasse in tempo di guerra a frequentare un ateneo, le pareva non solo pericoloso, ma anche inutile, una sfida alla legge della necessità.

Sospirò e mi introdusse nella mia nuova stanza con lentezza.

La cella che mi assegnarono era la numero tre, aveva un letto e un lavabo, i bagni si trovavano al piano. Dalla finestra che si apriva nel cortile si slargavano i raggi romani, una qualità del sole che aveva molto a che fare con la pietra e con le catacombe.

Aprii la valigia per sistemare le mie cose, erano così poche che impiegai solo qualche minuto. Tre abiti in tutto e un cappotto per quando sarebbe arrivato il freddo.

Calze, un solo paio. E per la toilette, una spazzola a setole grosse.

La suora mi consegnò gli asciugamani puliti, disse di non spaventarmi se durante la notte qualche spiffero maligno avesse ululato tra le tegole. È perché stiamo rifacendo

il soffitto, mi rassicurò. Ma le anime penitenti stanno alla larga dai collegi clericali.

Diedi uno sguardo al giardino.

Una novizia vangava l’orto. Un’altra potava una siepe e raccoglieva l’erba secca. Un roseto brillava più in là come una ferita. E poi. Aiuole di spiree, panchine di marmo rosa, filari di aceri, frassini, noci.

L’occhio buono tremò leggermente, s’incantò di bellezza. L’altro, che aveva l’abitudine di legarsi alla stravaganza delle cose, colse il fumo che sconfinava dalle cucine e puzzava di rape macinate.

Le campane davano il segno, sfioccavano supplici ed esaudienti, richiamando per il pranzo.

Non sembrava di essere in guerra.

L’indomani mi presentai alla facoltà di matematica da matricola, il mio numero era il diciassette.

La strada che dal convento portava all’università era ingolfata da tram e carrozze, studenti chiassosi e signori a passeggio.

Qualche ragazza si riparava sotto l’ombrello, altre prendevano a braccetto la vicina e borbottavano contro il fango che schizzava la strada.

Erano le otto, e io pensai che in quel momento a Noto si recitavano le lodi. Che le gazze intorpidite del Duomo svolazzavano verso il mercato per becchettare gli avanzi.

Mi strinsi nella camicia legata al collo, cercai di riportare l’occhio storto a una direzione più ordinaria. Quel difetto aveva acuito in me ogni passaggio, dall’infanzia all’adolescenza, frenando ogni mia vera partecipazione al mondo.

Troppo difficile fingere di avere uno sguardo sommesso, che non forzasse la vita, che si adeguasse a essere naturale.

La mia pupilla virava, seguiva i pensieri, fiutava gli enigmi matematici e decideva di sottrarsi al corpo. Non era mai stata un’alleata della mia età, mi aveva fatta sbocciare su un altro pianeta, disadorno, inattuale.

Anche nella moda, non mi aveva mai aiutata. Mettevo la gonna sempre un po’ di sghimbescio, sbagliavo la direzione del cappellino, capovolgevo i guanti. Ciò che per gli altri era dritto, per me era incrinato, pronto a sfiorire.

Ma in compenso, riuscivo a penetrare il pulviscolo atmosferico, a cogliere le variazioni del sole, a stanare la luce là dove altri vedevano il buio. L’occhio mi chiamava ad altri spazi, solitari e tempestosi, a domande che esigevano impellenti soluzioni.

Perché l’aria sconfinava nel cosmo? Cos’era che ci guidava verso l’eterno? Dove, dove correvano le stelle?

Quando entrai in aula e presi posto, gli interrogativi pressavano, ghermivano l’aria, svolavano sulle teste degli studenti.

Finsi di non accorgermene e feci attenzione a calare la veletta fino al naso, in modo da nascondere quel mio segno inopportuno.

Il professore entrò, salutò, ci contò velocemente.

Si soffermò su di me e sorrise.

Ero l’unica donna.

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Donna sulle scale

Donna sulle scale

di Bernhard Schlink

Un estratto dal nuovo romanzo Donna sulle scale.

Mi venne in mente anche qualcos’altro: avevo da poco iniziato a lavorare nello studio Karchinger&Kunze quando assunsi la difesa di un ex compagno di scuola e d’università che era andato nella nostra vecchia scuola per convincere alcuni studenti a partecipare a una manifestazione e stava lasciando il cortile insieme a loro quando un professore si era messo in mezzo. Ne nacque una rissa, durante la quale quest’ultimo cadde facendosi male. Quel mio ex compagno non aveva i mezzi sufficienti per pagarsi un avvocato? Mi aveva sfidato, dicendo che la sua difesa era troppo impegnativa per me? O, al contrario, mi aveva lusingato facendomi capire che ero particolarmente adatto alla sua difesa?

In ogni modo, decisi di occuparmi del caso e di farlo gratuitamente, informandone solo la segretaria, ma non Karchinger e Kunze. Loro però lo vennero a sapere e si arrabbiarono. Difendevo una persona che aveva turbato l’ordine pubblico: che cosa avrebbero pensato i nostri clienti provenienti dal mondo dell’industria e del commercio? Dovetti rinunciare alla sua difesa e, benché gli avessi trovato un sostituto, quel mio ex compagno fu condannato. Il fatto che avessi rinunciato a rappresentarlo proprio dopo che il professore era stato di nuovo ricoverato in ospedale e quindi dopo che l’imputazione poteva cambiare da turbamento dell’ordine pubblico semplice in turbamento dell’ordine pubblico grave, era apparso come una mia presa di distanza dall’imputato, e ciò non aiutò la sua difesa.

Sarei riuscito a farlo assolvere? Ero ottimista; intendevo vincere la mia prima e probabilmente unica causa penale e avevo assunto un investigatore privato, il quale aveva scoperto che la rissa era stata scatenata da un bidello adirato e che il professore, in passato, aveva sofferto di attacchi epilettici. Tutto questo l’avevo comunicato all’avvocato che mi sostituì, ma non era stato abbastanza bravo. Un altro forse sarebbe stato migliore, ma anche più costoso. Al mio ex compagno avevo promesso che alle spese avrei pensato io. Lui non si sarebbe potuto permettere nemmeno l’avocato che gli avevo trovato, figuriamoci uno migliore. Non gli dovevo niente. A scuola e nei primi semestri all’università eravamo stati amici, ma da allora era trascorso tanto di quel tempo. Lui era un eterno studente, io invece non volevo passare la mia vita a non far niente, perciò ben presto avevamo preso due strade diverse.

Nelle cause penali di natura politica le sentenze di allora erano draconiane, e fu condannato a una pena senza condizionale. Forse per lui non era poi tanto grave, forse davvero non gli faceva una gran differenza perdere tempo fuori o dentro la prigione. Non sono mai andato a trovarlo in carcere e lui non si è fatto sentire mai piú.

Chissà cosa ne è stato. Non devo niente a nessuno, nemmeno gratitudine.  Se ricevo un favore, lo restituisco. Se qualcuno si dimostra generoso verso di me, lo ripago del doppio o del triplo. Mi sento di dire che, a guardare le mie amicizie e conoscenze, c’è un pareggio di bilancio. Nel lavoro la situazione è diversa, ma in quel mondo il bilancio positivo non lo si deve tanto alla generosità altrui, bensì alla propria bravura.

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Israele, gli amici, Amir Gutfreund ed Eshkol Nevo

A cura di Raffaella Scardi, traduttrice dei romanzi di Eshkol Nevo e Amir Gutfreund

Gli scrittori israeliani sanno narrare grandi amicizie.

Il tema dell’amicizia pervade tutti i romanzi di Eshkol Nevo e spesso i suoi racconti brevi. È centrale ne La simmetria dei desideri, ma rappresenta un elemento cardine in tutte le sue opere, incluso il recente L’ultima intervista. Bastano spesso pochi tocchi delicati per trasmetterci la profondità di questo sentimento.

Nel romanzo Per lei volano gli eroi, Amir Gutfreund racconta l’amicizia di una vita tra cinque ragazzi uniti fin da bambini: giocano e crescono insieme, insieme vanno a scuola, insieme conoscono l’amore, la guerra e la morte. Amicizia e vita scorrono intrecciate alla storia di Israele, dalla guerra dei Sei giorni nel 1967 all’assassinio di Rabin 1995. L’amicizia, i suoi cambiamenti e la sua forza invincibile sono il fil rouge che tiene uniti i frammenti di un mondo in cui avvengono sommovimenti epocali.

I cinque sono Yoram, Benni, Gideon, Zion e Arik, la voce narrante. Nei loro caratteri e nelle famiglie da cui provengono troviamo gli elementi costituitivi del melting pot di Israele dagli anni Cinquanta a fine Novecento. L’amicizia resiste, permane a dispetto delle differenze, dei tradimenti, delle rotture, persino di quella definitiva, la morte.

Arik, il protagonista e narratore, è figlio unico, la mamma è “sabra”, israeliana nata in kibbutz, il padre è arrivato dalla Polonia, sopravvissuto alla Shoah, un uomo semplice, lavoratore instancabile, sionista, orgoglioso del suo paese. Yoram ha due anni più degli altri ragazzi del gruppo. Suo papà è violento, la madre lo abbandona per fuggire in America. Sogna di diventare milionario, è ingegnoso, sfiora il cielo, poi cade e di nuovo si rialza. Zion Nachmias, di famiglia greco-turca, futuro giocatore di basket, amico fedele e amato, morirà nell’Operazione Pace in Galilea, la prima guerra del Libano, che lascia un trauma indelebile anche su Arik e Gideon. Quest’ultimo, di famiglia ashkenazita, è l’amato rampollo di un primario di ospedale e di una docente universitaria. Benni Abadi appartiene a una famiglia di commercialisti di origini irachene, grande, calda, avvolgente.

In Israele i ragazzi sono (e ancora di più erano negli anni Sessanta e Settanta) molto liberi e uniti; il servizio militare obbligatorio è un momento di distacco dalla famiglia, un’esperienza dura e formativa che diventa il collante alla base di amicizie che durano una vita.

Gutfreund e Nevo, ci regalano l’immersione in uno dei valori più preziosi per gli israeliani: l’amicizia.

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