Category Archives: La famiglia in stato d’assedio

Tutti i racconti di fantasmi sono simili, ma ogni fantasma è diverso a modo suo.

Roberto Cotroneo

È proprio inevitabile che le famiglie stiano comode dentro i romanzi. Per certi versi il genere del romanzo nasce proprio per questo: per raccontare un mondo borghese, figlio della rivoluzione industriale. E se è vero che sulle famiglie le aristocrazie hanno poggiato prestigio, ricchezza e potere, le borghesie, hanno invece messo, dolori e speranze, contraddizioni e passioni, ma soprattutto racconto interiore. Se poi è vero, per citare il celebre incipit di Anna Karenina, che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ma ogni famiglia infelice è infelice a suo modo», ecco spiegato il perché i romanzieri non fanno altro che girare attorno alle famiglie, e preferibilmente a quelle infelici (quelle felici si usano solo per le pubblicità dei biscotti).

Va detto che anche quando sembra non ci sia ombra di famiglia in un romanzo, e il protagonista è magari un sociopatico che non ha mai vissuto con nessuno per tutta la sua vita, non ci si deve lasciare ingannare: all’origine c’è un’assenza, c’è una privazione e dunque una sofferenza. E c’è anche quando la famiglia futura è minacciata da eventi contrari, come per i poveri Renzo e Lucia. Ma generalmente è tutta una storia di famiglie un po’ ovunque: le Bennet di Jane Austen, per non dire dei Buddenbrook, e persino i dolori dell’orfanotrofio di Oliver Twist è tutto un’assenza di famiglia. Poi certo, il capitano Achab non è tipo da moglie e figli e da cappone nel giorno del Ringraziamento, ma non dimentichiamoci che era un Quacchero, un calvinista e puritano, e la famiglia, alla fine era tutto. Si potrebbe continuare a lungo: tra famiglie immaginarie, e famiglie magiche come quelle dei Buendía di Márquez, oppure famiglie distratte e assenti come quella dei Caulfield, da cui Holden cerca di provare a fuggire in tutti i modi. Ma va detto che senza l’ossessione della famiglia il romanzo gotico non esisterebbe. È dentro le famiglie che bisogna andare a guardare, ma anche dentro le case, le dimore, le persone. I fantasmi, dopo tutto, sono dei familiari un po’ agé che non si allontanano mai dal luogo in cui hanno vissuto e tormentano i nipoti e pronipoti con apparizioni terrificanti. Terrificanti per i vivi, perché magari loro hanno solo il desiderio di tenere insieme le famiglie anche nei secoli dei secoli.

Ma ironia a parte. È del tutto evidente che una storia di fantasmi si debba basare su luoghi, possibilmente pieni di segreti, e di nuclei familiari che nascondono altre cose. Ed è da qui che sono partito scrivendo Loro: da una casa, fortemente voluta come luogo in cui far crescere una nuova famiglia. E da presenze inquietanti, che sono in quel luogo, e che in un certo senso lo rappresentano. Ma poi ognuno fa la sua parte, ognuno mette un pezzo di infelicità, ognuno si confronta con l’ignoto, in un modo sempre diverso. E più le famiglie appaiono felici, e più l’ignoto spalanca le finestre, urla con il vento, abbassa le luci, e rende le notti niente affatto tranquille.

Loro è un romanzo gotico, ma è un romanzo di romanzi, dove tutto porta a qualcosa che ha a che fare con il legame familiare più forte di tutti. E questo si può e si deve capire soltanto nel finale. Nella casa di vetro che racconta che ogni cosa è visibile, trasparente, ma solo in apparenza. Perché parafrasando Tolstoj: tutti i racconti di fantasmi sono simili, ma ogni fantasma è diverso a modo suo.

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Neve d’ottobre

Angela Nanetti

Si è sfilato la cinghia, e giu’sulle gambe…”

Vengo da un tempo in cui frasi come queste potevano essere pronunciate senza vergogna, quasi con naturalezza, un tempo in cui non pochi erano i padri che si sentivano autorizzati – “quando ci vuole ci vuole” – a farsi giudici e giustizieri dei propri figli. Talvolta però poteva succedere che gli occhi paterni diventassero ciechi, e allora la cinghia saliva e raggiungeva la schiena e le braccia chiuse a uovo, a proteggere la testa.

Le ire dei padri! Nessuno, che io sappia, le contestava, perché servivano non solo a correggere il figlio “storto”, con la coscienza di aver fatto la cosa giusta, ma a sbollire rabbie, frustrazioni e stanchezze, nei ceti più poveri anche l’alcool, di colui che era riconosciuto da tutti come il capo. “È un ribelle, non rispetta le regole, se lo merita!”  

Ma Giulio, il protagonista del romanzo, non è un ribelle, è un irriducibile. Fin da bambino fa parte di quella ristretta cerchia di eletti o di dannati caparbiamente fedeli a sé stessi piuttosto che alle regole, vantate dal padre come “il fondamento del vivere civile”. Regole che lui, giudice presso un tribunale locale, impone piu’ agli altri che a sé, nascondendo dietro il rigore e una sapienza giuridica formale il suo narcisismo inappagato, le sue ambizioni frustrate, i fallimenti e le ombre che lo tormentano.                                         

Inconciliabili il padre e il figlio, per l’irriducibile diversità di Giulio fatta di sensibilità profonda e di inquietudine, che lo spinge a ignorare il tempo e le convenienze e a cercare cieli, boschi e animali, unico habitat in cui si sente pienamente accolto, con un’adesione così totale da sfiorare lo sperdimento. Una diversità la sua che richiederebbe, a fargli da guida, l’attenzione vigile e amorosa che ha per lui la madre, non la durezza venata di disprezzo che padre gli riserva e che porterà alla tragedia. La quale, dapprima sottaciuta e poi sminuita fino a essere rimossa, accentuerà l’estraneità di Giulio e scaverà una incrinatura sempre più profonda nelle relazioni familiari fino alla loro deflagrazione. Il primo a entrare in crisi è il rapporto tra i fratelli e Vittorio, il fratello minore che lo aveva idolatrato, finirà per vederlo con gli occhi stessi del padre, un dio fallito, un pianoforte scordato, uno che ha sperperato da irresponsabile i molti doni ricevuti.                                                

Egli si renderà conto troppo tardi, nel breve tempo che trascorrono insieme, forse un tempo finale, che Giulio è fatto di una materia diversa, che le stimmate sul suo corpo hanno reso più dolente e sensibile: la grande Storia gli passa vicino, ma lui non sembra coinvolto in quella macina che trita uomini e popoli, quanto piuttosto nella storia piccola, che si esercita nel quotidiano con la violenza sui deboli e la cecità del caso. Una diversa materia. La sua irrequietezza non ha niente della inquietudine insoddisfatta del padre e del fratello, non è un puer economicus  Giulio, né  lo sarà da adulto, è l’uomo dei legami disinteressati e duraturi, a cui rimane fedele: i boschi e i piccoli animali da proteggere,  il maso con la sua fatica quotidiana, la donna che ha scelto da bambino, quella creatura dura e fragile che il suo amore arriva a rendere luminosa,  la madre non dimenticata a cui porta gli unici fiori della sepoltura.                                                                                                                                                     

Così nel naufragio finale, dove quella lontana ferita  rimossa dalla famiglia torna protagonista, la silenziosa umanità di Giulio riaffiora misteriosamente fino a toccare chi è chiamato a prendersi cura di lui: i medici, l’ infermiera, la figlia adottiva  e il fratello stesso, per i quali una situazione vissuta come una difficoltà personale o un caso clinico da risolvere, si trasforma nella “seconda opportunità” che la vita talvolta offre, forse effimera come una nevicata d’ottobre o forse portatrice di un diverso futuro.

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Favola familiare

Bérengère Cournut

Due anni fa, quando Di pietra e d’osso è uscito in Francia, mi è stato chiesto se secondo me la letteratura consistesse nel rivisitare la propria vita. Ho avuto l’impulso di rispondere «no», tanto la letteratura è per me sinonimo di un altrove assoluto. Come lettrice sono assetata di universi stranianti, di scritture capaci di farmi penetrare in altre dimensioni dell’esistenza, di sguardi sulla realtà che siano sfalsati. Ecco perché leggo volentieri poesia o opere scientifiche più che romanzi, che troppo spesso mi sembrano narrazioni molto simili a come si svolgono le nostre vite, in qualunque epoca siano ambientati. Perché mi interessino, devono per forza far emergere da qualche parte l’inconsueto, per rivelarmi una realtà diversa da quella immediatamente percepibile. Da qui il mio amore per le leggende o i miti, che costringono i personaggi a incontri o situazioni in grado di rivelarli a se stessi o, perlomeno, trasformarli. Spingendomi anche oltre, dirò che dalla letteratura mi aspetto sempre, più che una rivelazione, una vera e propria «metamorfosi». Continue reading Favola familiare

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Uno scherzo del destino

Massimo Ortelio

La storia avvince fin da pagina uno. Sorridi incredulo: l’immacolata concezione nell’Inghilterra degli anni ’50?  Ma in fondo, perché no? E la narrazione ti cattura.

Bella come una Madonna in Technicolor (la bellezza non è forse un prodigio di per sé?) Gretchen racconta la sua vicenda, assurdamente verosimile, a Jean, inviata di un giornale di provincia. Jean non è bella, e lo sa. Ha una vita scialba e una madre scorbutica, una famiglia infelice, come sono spesso le famiglie “normali”. E conosce quella che appare ai suoi occhi come la famiglia ideale, i Tilbury: Gretchen e la figlia, accomunate da una bellezza abbacinante, e il marito orefice. Ma non è tutto oro quello che luccica.

Come sempre, sarà l’Amore il deus-ex machina. Sulla soglia dei quarant’anni, Jean intravede una promessa di felicità, il vero Piacere, dopo i “piccoli piaceri” che è abituata a centellinare con la parsimonia dei bisognosi. E inizia un nuovo giro di giostra, un imprevedibile gioco delle coppie…

Mentre lo traducevo, questo romanzo me ne ha fatto venire alla mente un altro. Jean è una piccoloborghese come Violet, la ricamatrice di Winchester di Tracy Chevalier. Sono grosso modo coetanee ed entrambe zitelle, queste due donne non più giovani in cerca di un tardivo riscatto sentimentale. Vivono esistenze opache in balia di madri dispotiche. Si innamorano entrambe di uomini più vecchi di loro, imbarcandosi in amori, all’apparenza, impossibili. Sono numerosi i punti di contatto fra le due storie, a partire dall’amore omosessuale al femminile, raccontato in entrambi i casi con efficacia ed eleganza.

Ma è diverso l’epilogo, che non svelerò, ovviamente.

Dirò solo che vi lascerà senza fiato. Clare Chambers racconta una tragedia come se fosse una commedia, con il tono sapientemente ironico che è la cifra della sua scrittura. Ci rammenta che il destino è pur sempre in agguato, che la vita vera, la vita reale è un’autrice spregiudicata che non si perita di mescolare, senza sosta, il registro funebre alla frivolezza.

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