Category Archives: CONTENUTI SPECIALI

Nuovi autori giapponesi

di Gianluca Coci, traduttore del romanzo La fabbrica (giugno 2021)

Care lettrici e cari lettori,

ormai si esce poco la sera, ma c’è una grossa novità… La narrativa giapponese, che nonostante tutto gode di ottima salute e si conferma come uno dei centri più interessanti e innovativi del panorama letterario mondiale, ci propone una nuova autrice che sta facendo e continuerà a far parlare molto di sé: Hiroko Oyamada.

Classe 1983, nata a Hiroshima, Oyamada si è laureata in letteratura giapponese del periodo premoderno e ha scritto finora due romanzi e una raccolta di racconti contraddistinti da notevole originalità e uno stile davvero peculiare, che la pongono con sorprendente rapidità e a pieno titolo al vertice di una nuova generazione di scrittrici che coniugano sapientemente realtà e fantasia, problematiche sociali e ricerca di forme di espressione artistica all’avanguardia, accanto alle quasi coetanee Mieko Kawakami e Sayaka Murata, tanto per citare due nomi già noti anche in Italia.

Neri Pozza, casa editrice da molti anni attenta alla letteratura che viene dal Sol Levante, pubblicherà quest’estate il suo romanzo d’esordio: La fabbrica, una satira molto sui generis del mondo del lavoro nipponico, ma al contempo un romanzo onirico e proletario dai toni fiabeschi e darkeggianti, in cui si intrecciano echi carrolliani e kafkiani. Le storie di tre giovani alla disperata ricerca di un impiego e figli del cosiddetto “ventennio perduto” si intersecano in una serie di vicende ai limiti dell’assurdo, entro i confini di una fabbrica/città accentratrice e spersonalizzante “mastodontica come Disneyland”.

Già, il “ventennio perduto”, ovvero quel periodo di recessione e stagnazione economica che corrisponde grossomodo ai due decenni a cavallo del nuovo millennio e che è seguito allo scoppio della grande bolla speculativa giapponese degli anni Ottanta, segnando tra l’altro il tramonto del sogno del posto fisso e la nascita di una generazione di freeter, lavoratori precari che si adattano alla nuova situazione socio-economica dedicandosi a impieghi perlopiù a breve termine e aspirando a una certa autonomia e libertà personale.

Freeter o giù di lì sono i tre protagonisti de La fabbrica, assunti da questa mostruosa e grigia entità dopo colloqui a dir poco grotteschi: una neolaureata in Linguistica che finisce nella bislacca “Squadra distruttori” di un non meglio definito “Reparto servizi di stampa”, in qualità di addetta a misteriose macchine distruggidocumenti; un ricercatore impossibilitato a proseguire la carriera universitaria e costretto a raccogliere campioni di muschio per un progetto di inverdimento delle centinaia di tetti della fabbrica/città; un tecnico informatico licenziato in tronco a seguito di una ristrutturazione aziendale, che dovrà riciclarsi come correttore di bozze di strani documenti a uso interno. In un limbo sospeso tra incubo e realtà, relazionandosi con una serie di personaggi stravaganti che sembrano indossare di volta in volta abiti da Cappellaio Matto e completi da perfetti impiegati o tute da operai, i tre giovani si muovono in una sorta di ecosistema a sé stante popolato da curiosi animali (enormi nutrie dal dorso grigio, “lucertole delle lavatrici”, “cormorani della fabbrica” dal piumaggio nero e lucido come petrolio) e in cui non manca nulla (perché la fabbrica produce tutto ciò di cui si ha bisogno per sopravvivere), dominato dal grigio e dal verde. Al grigio cupo e rigoroso degli edifici della fabbrica, delle tute e dei grembiuli degli operai e di macchine e automezzi su cui campeggia il logo aziendale, fa da contraltare una patina verdeggiante che talvolta ricopre le pareti e i tetti delle costruzioni, come una speranza green che aleggia tra le pieghe di un mondo in disfacimento e tutto da ricreare.

Il mondo di Hiroko Oyamada, che con questo romanzo si è aggiudicata il premio Oda Sakunosuke e con il successivo Ana (“Il buco”) – romanzo in cui agli echi carrolliani si aggiungono visioni tra David Lynch e Miyazaki Hayao – il premio Akutagawa, è sorretto da una qualità e uno spessore letterario notevoli, da una scrittura densa, precisa e allo stesso tempo fluida e avvincente, ricca di salti temporali e dialoghi e pensieri incastonati nel corpo del testo.

È un mondo che rappresenta una scoperta continua, frutto di un processo creativo che spesso, come sottolinea la stessa autrice in un’intervista, non si basa “su schemi prefissati e un progetto ben definito, bensì su blocchi di scrittura indipendenti e riposizionati a posteriori come in una sorta di magico gioco a incastri”.

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Natsuo Kirino

Chi ancora non conoscesse Natsuo Kirino dovrebbe fare molta attenzione accostandosi alle sue opere. Lo stile dell’acclamata autrice giapponese, ritenuta in patria «l’unica vera voce innovativa della letteratura giapponese degli ultimi venti anni» (Daisuke Hashimoto), è infatti in grado di avvolgere il lettore a poco a poco e trasportarlo, senza che neppure se ne accorga, nel lato oscuro del Giappone contemporaneo al punto tale da farlo sentire completamente immerso e senza via di fuga.

Considerata una star nel suo paese già dagli anni Novanta, Kirino è diventata un caso internazionale dopo la pubblicazione di Out, apparso nelle nostre edizioni col titolo Le quattro casalinghe di Tokyo. Da quel momento in poi non si è più fermata e, in quasi trent’anni, non ha mai smesso di tessere le trame di quei libri che l’hanno resa la protagonista incontrastata del noir giapponese in tutto il mondo. Una macchina narrativa che procede senza esitazioni, chirurgica, fredda e letale. Da Pioggia sul viso a Grotesque e a Morbide Guance, da L’isola dei naufraghi a Una storia crudele, da Real World a IN.


Regina dell’intreccio narrativo, la Kirino adora soffermarsi sui rapporti di potere tra uomini e donne, sul sesso e sulla violenza che li permea e sulla loro rappresentazione nella cultura giapponese. Chi la conosce sa che, grazie a una magistrale descrizione delle atmosfere claustrofobiche e torbide in cui si svolgono le sue storie, è riuscita a dar vita a situazioni al limite con la sua fervida immaginazione.

Romanzo dopo romanzo, la sua attenzione si è poi progressivamente concentrata sulla dinamica delle relazioni umane con un crescente interesse per la violenza interna ai rapporti famigliari, e più in generale, affettivi. Se, in Pioggia sul viso, opera d’esordio datata 1993, agiscono segretarie doppiogiochiste in una storia in cui la colpa esteriore è sempre il risultato di una sconfitta interiore, ne Le quattro casalinghe di Tokyo la frustrazione serpeggia tra le colleghe di una catena di montaggio impegnate a fare a pezzi il marito di una di loro. Se nelle pagine di IN la medesima frustrazione esplode in una violenza che finisce col coinvolgere tutti quelli che hanno a che fare con i protagonisti, in Real World sono quattro adolescentiimmerse in una vita di chat, sms e reality TV, a scoprire un mondo scabroso e brutale.
Se, infine, in Morbide Guance la scomparsa di una bambina illumina la futilità di una relazione clandestina, in Grotesque la morte crudele delle bellissime Yuriko e Kazuo mostra lo stato della società giapponese. Insomma, descrizioni della condizione umana senza filtri, analisi e sentimenti che travalicano spazio e tempo, storie colme di dettagli realistici.


Leggere Natsuo Kirino significa non soltanto essere irresistibilmente attratti dal fascino dell’oscuro, della zona d’ombra dell’esistenza, ma anche gettare uno sguardo profondo sulla società giapponese odierna, e sui torbidi intrecci che un’antica cultura genera a contatto con la modernità.

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Mi casa es tu casa

Di Chiara Levi, fondatrice di MicaTuca

Quando ho iniziato a pensare a MICATUCA non trovavo i termini giusti per raccontarlo. Perché MICATUCA parla di cibo, alimenti, nutrizione, viaggi e questa è l’epoca in cui abbiamo scoperto (o riscoperto?) quanto le parole siano chirurghe, precise, delicate. È l’epoca in cui se dici “nutrire” invece di “mangiare”, se dici “cibo” invece di “alimento”, se dici piatto “tradizionale” invece di “popolare”, rischi di scatenare malumori, arrabbiature, polemiche. E chi apre una nuova società, una nuova attività e un nuovo business non vuole aprire con una scocciatura.

Mi sono quindi trovata a calibrare per giorni interi l’uso delle parole. Dovevo semplicemente mettere nero su bianco, sul mio sito, cosa stavo facendo, che prodotto stavo vendendo, ma in realtà mi sono trovata fare ricerche sulla Treccani, a cercare istruzioni su come raccontare il mio business e quali erano le parole giuste per farlo.

Intorno al cibo c’è una continua tensione: c’è chi difende la tradizione (o presunta tale) a tutti i costi, c’è chi spariglia le carte, c’è chi sperimenta tecniche di cottura, chi fa abbinamenti apparentemente folli, chi replica all’infinito la stessa ricetta, chi cambia ogni giorno. C’è chi parla di cibo etnico, chi di cibo esotico, chi non sopporta nemmeno la cucina di una diversa regione d’Italia, chi nella vita ha assaggiato solo un esotico all you can eat giapponese.

Non avevo nessuna voglia di difendermi o giustificarmi. Volevo solo vendere un prodotto, un’idea, eppure ho tremato davanti all’idea del plotone di esecuzione dei moralisti del food. Ad un certo punto sono dovuta scendere a patti con me stessa, o non sarei mai andata online: MICATUCA sarebbe stato lo specchio delle tradizioni alimentari dei singoli essere umani che mi aiutano a crearlo. Sarebbe stato così, autentico, ancorato alle persone reali, e per questo inattaccabile.

E così è stato: nessun nuovo moralista del cibo, nessun vecchio o nuovo oltranzista, ha mai mosso lamentele.

A novembre 2019, una settimana dopo aver partorito la mia seconda figlia, ho messo on line micatuca.com, il progetto folle che avevo pensato per qualche mese con il mio compagno e socio Stefano.

MICATUCA è una box sui cibi del mondo in abbonamento postale, è una subscription box, come direbbero gli amanti dei business plan. Ogni mese i nostri abbonati ricevono a casa una scatola dove trovano alcuni alimenti di un solo paese del mondo. Il paese è sempre a sorpresa: non puoi sapere in quale paese “atterrerai” fino al momento dell’unboxing.

In ogni box ci sono anche due ricette, una dolce e una salata, corredate da una breve intervista a un local, una persona che è nata e vive nel paese del mese.

MICATUCA è l’acronimo di una delle frasi spagnole che più amo: Mi casa es tu casa. La mia casa è la tua casa. MICATUCA infatti non è solo una box di cibo etnico, ma una porta di una casa che si apre perché ogni box è realizzata con l’aiuto di una persona del posto che ci aiuta a scegliere gli alimenti più identificativi e le ricette che si trovano in ogni box sono le ricette della sua famiglia.

Il motivo di questa scelta “editoriale” è molto semplice: non volevo un prodotto sterile, una box di cibi raccolti senza criterio, volevo piuttosto portare gli italiani a scoprire quel c’è davvero nella dispensa di qualcuno che vive dall’altra parte del mondo. E così ho fatto conoscere a chi mi segue di mese in mese la cucina filippina di nonna Letty, le tradizioni culinarie di Snighda, che vive a Delhi, la ricetta della mazamorra morada peruviana di Patrick o quella del Tabbouleh di Silvana, medico libanese.

Ogni cucina è a sé, e quello che si trova nella mia dispensa è diverso da quello che troverei nella tua. MICATUCA è questo: è un biglietto di ingresso in una cucina di una persona che forse non incontreremo mai nella nostra vita. Se penso al cibo, non riesco ad immaginare niente di più intimo.

Il cibo permea la cultura, la letteratura, il cinema, contribuisce al nostro equilibrio, definisce la nostra socialità, e ogni paese, ogni cucina, ha qualcosa di incredibile da raccontarci. In moltissimi libri la cucina è l’ambiente in cui evolvono le storie, in cui i personaggi si scontrano, si perdono e si incontrano, e sbirciare nella dispensa del personaggio di un libro è un privilegio grandissimo.

Quando Neri Pozza mi ha proposto di collaborare alla realizzazione di una box che desse vita alle ricette di Alka Joshi sono stata molto felice perché proprio come il mio progetto la letteratura ha il potere di portarci lontano, magari a casa di altre persone, evocando con le parole sapori e odori di altre culture e altri paesi – in questo specifico caso l’India.

E dunque la local di questa box speciale è proprio l’autrice di L’arte dell’henné a Jaipur e i prodotti che ci troverete sono proprio quelli che servono per preparare le due ricette presenti nel suo libro, che ovviamente sono le ricette con cui ci apre le porte della sua casa.

L’augurio è che questa box vi faccia viaggiare, in un periodo storico in cui il viaggio non è contemplato, sia con la potenza della narrazione che con il gusto.

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In attesa

Di Alka Joshi, autrice del romanzo L’arte dell’henné a Jaipur

Ogni mattina apro gli occhi e tu sei lì. Due foto tue, scattate a cinquant’anni di distanza. In una hai diciott’anni, sposa novella. Hai labbra turgide; il fotografo le ha colorate di rosso. Ha tinto di rosa il tuo sari.

La madre di Alka Joshi a 18 anni

Non sorridi, ma sembri sul punto di farlo. Hai accettato il matrimonio che tuo padre ha combinato tra te e mio padre, ma sembri rimpiangere che l’abbia fatto.

Hai dato alla luce un maschio. E una femmina (io). Poi un altro maschio. Ci hai nutriti, curati.

Siamo una famiglia della classe media. Non ci manca niente.

Ma quando ci trasferiamo in America, le cose cambiano. Conservi minuscole schegge di sapone, le metti in un vasetto e aggiungi acqua per ottenere sapone liquido. Disponi nei cestini dei rifiuti i sacchetti di plastica del supermercato. Mi insegni che il pane del giorno prima è buono quasi quanto quello fresco, ma molto meno caro. Impari ad apprezzare i negozi di seconda mano: tre set di lenzuola mai usate (cinquanta centesimi!), il rastrello con un dente rotto (gratis!). Risparmi, risparmi, risparmi.

I miei fratelli e io abbiamo bisogno di soldi per l’università. Ti trovi un lavoro in fabbrica. Segui le regole, saldi schede madri con grande bravura. Non sei mai in ritardo. Vai a genio ai tuoi capi. Ti promuovono supervisore. Torni a casa stanca, la sera, ma cucini, proibendoci di entrare in cucina. Fate i compiti, dici. Dovete essere bravi a scuola, dici.

Poi ti ammali. Perdi sempre sangue. Svieni al lavoro. Ti operano. Ti operano ancora. E ancora. Una serie di ospedali dall’odore nauseabondo, infermiere spaventose. Non torni al lavoro.

Nell’altra fotografia sulla mia scrivania ridi, cercando di spingermi fuori dall’inquadratura. Rido anch’io. Abbiamo le rughe attorno agli occhi, delle virgole agli angoli della bocca. Hai 68 anni. Hai lasciato mio padre, ti sei trasferita a migliaia di chilometri di distanza. Ti sei già fatta degli amici. Giochi a bridge. Canti, come facevi da ragazza. Sorridi spesso. Che cambiamento in te!

Vuoi fare tutto, andare dappertutto. Una fiera che sto organizzando per un cliente. Il Garlic Festival. La sfilata di moda dei senior. Un casting.

Mi rendo conto troppo tardi che sei la persona che sei sempre stata. Quella nascosta dietro la sposa seria. Quella in attesa che qualcuno suggerisse un’avventura.

Perché ci ho impiegato tanto a vederti? Quando ci sono riuscita, ho scritto un libro per te. Per darti la libertà che crescendo non avevi mai avuto. L’arte dell’henné a Jaipur è la mia lettera d’amore per te.

Ora te ne sei andata. Andata davvero.

Una volta mi hai detto che non avevi voluto partire dall’India, che hai chiesto a mio padre se potevamo ritornare. Penso che fosse la paura a parlare. Allora non sapevi che avevi coraggio abbastanza per tutti noi. Che senza di te non ce l’avremmo mai fatta, qui. Hai usato ogni tua risorsa per rendere le nostre vite più grandi, più piene.

Ecco perché tengo vicine le due versioni di te. Quella in cui sei in attesa. E l’altra, quella in cui sei arrivata.

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Hai detto “bias algoritmico”?

Un estratto tratto dal libro Nel paese degli algoritmi, di Aurélie Jean

Nell’ottobre 2009 entravo dunque a far parte del laboratorio biomedico di medicina rigenerativa della Penn State. Il nostro team intrecciava prospettiva medica e ingegneristica allo scopo di sviluppare delle tecniche per creare tessuti in laboratorio (o più esattamente in un bioreattore) con cui sostituire tessuti danneggiati. In altre parole, si trattava di un passo avanti decisivo nella lunga storia dei trapianti: creando tessuti direttamente dalle cellule staminali del paziente, si porrebbe fine al fenomeno del rigetto! Si eviterebbero anche operazioni successive in un bambino in crescita con una protesi sintetica o naturale, poichè la protesi potrebbe crescere con lui. Per tutto questo ci vorranno ancora degli anni, e all’epoca si era proprio agli inizi. Quanto a me, lavoravo allo sviluppo in vitro di cellule cardiache per la riparazione del tessuto miocardico dopo un infarto. Un anno prima, con il team di Lisa Freed, nel laboratorio del professor Robert Langer al MIT, George aveva sviluppato una tecnica unica per generare artificialmente un lembo di tessuto miocardico, con risultati molto promettenti: la morfologia del tessuto artificiale e il suo comportamento elastico relativo erano molto simili a quelli del tessuto in vivo. Ma il tessuto era ancora troppo rigido, e troppe cellule cardiache morivano durante la crescita. George, un visionario, vedeva nei modelli e nelle simulazioni della mia tesi un modo intelligente per migliorare la sua tecnica. In effetti, il tessuto miocardico è costituito (tra le altre cose) da cellule cardiache circondate da collagene. Abbiamo quindi stabilito un’analogia tra queste cellule e le “mie” nanoparticelle di carbonio nella loro matrice elastomerica, e insieme abbiamo creato degli algoritmi di simulazione ispirati al mio primo lavoro… Evviva il dialogo tra le scienze!

Ma l’interdisciplinarietà non è solo una questione intellettuale.

Come diceva George, «You have to get your hands dirty»: la medicina non si impara solo sui libri, per capire bisogna anche toccare, manipolare. Secondo George, io non potevo trasporre il mio modello dalla morfologia delle microstrutture della gomma al tessuto miocardico se non capivo il funzionamento del cuore, come organo e a livello cellulare. è in quest’ottica che, pochi mesi dopo il mio arrivo, ha deciso di far sezionare il cuore di un maiale affinchè io ne comprendessi l’anatomia, e anche di farne estrarre le cellule e coltivarle, per illustrarmi la vita quotidiana di una cellula del miocardio.

Hai detto “bias algoritmico”?

Così, alla fine del 2009 affronto la mia prima dissezione di un cuore. Sono seduta a un bancone del laboratorio sotto una cappa aspirante, vicino a George, lui rilassatissimo, io galvanizzata all’idea di interpretare il ruolo del dottore. Mi rendo conto di quanto sono fortunata a passare le prossime due ore a imparare direttamente da un grande esperto della materia. I miei microprocessori sono mille miglia lontani: mi trovo in perfetto assetto da scienziata da laboratorio, con guanti, mascherina e camice bianco. Finalmente incarno l’immagine che mia nonna aveva di me quando dicevo che lavoravo in un laboratorio di ricerca. Dopo avermi introdotto agli strumenti che useremo per la dissezione, George mi spiega come incidere i tessuti del muscolo cardiaco in modo da non danneggiarli

in vista dell’estrazione delle cellule. Scopro per la prima volta l’interno di un cuore, con le due metà quasi simmetriche, da cui partono rispettivamente l’aorta e l’arteria polmonare. Identifico gli atri, i ventricoli, le valvole… Ma a proposito: come si distingue il ventricolo sinistro dal destro prima della dissezione? Molto semplice, mi risponde George. Mi chiede di chiudere gli occhi e di toccare entrambe le parti. Una è più rigida: è la sinistra, da cui parte l’arteria aorta.

La meccanica del cuore mi affascina: un organo ingegnoso, incredibilmente sofisticato, concepito in maniera perfetta dalla natura per far circolare il sangue in modo regolare in tutto il corpo. George mi spiega che l’anatomia del cuore di un maiale è simile a quella di un cuore umano. Tuttavia, mi dice, il posizionamento nella gabbia toracica non è uguale nell’uomo e nell’animale. E insiste sul fatto che, in generale, le differenze morfologiche tra essere umano e animale sono molte; quindi traslando i risultati ricavati sugli animali in ambito umano, corriamo sempre il rischio di introdurre nella nostra ricerca dei bias.

Bias: è la prima volta che mi imbatto in questo termine in inglese.

Avevo già capito, nel quotidiano, che la nostra visione a volte distorta delle persone, delle culture e delle cose in generale può influenzare i nostri giudizi e percezioni. Ma fino a ora, per me, era un aspetto che rimaneva legato alle prove sperimentali e agli studi clinici. Di sicuro non ai miei algoritmi. Mi sbagliavo. Nel giro di due ore e mezzo completiamo la dissezione e l’estrazione delle cellule cardiache. Le depongo delicatamente in una piastra di Petri, che trasferisco all’interno dell’incubatore caldo e umido, in modo che possano crescere. Richiuso l’incubatore, comincio a pulire il bancone e gli strumenti secondo il rigido protocollo di sterilizzazione. Ed è allora che George decide di affrontare il tema delle simulazioni numeriche e di tornare sulla questione dei bias.

«Abbiamo pensato ai bias che potremmo introdurre nei modelli e negli algoritmi che sviluppiamo per simulare il comportamento elastico di un muscolo cardiaco creato in laboratorio?»

La domanda mi coglie alla sprovvista. Al punto che, me lo ricordo bene, scoppio a ridere. «Che cosa? Ma qui non c’entrano!» rispondo, un po’ troppo sicura di me.

Il mio ragionamento era questo: eseguendo simulazioni direttamente su modelli virtuali di esseri umani viventi, io non traslo alcun risultato dall’animale all’essere umano. Quindi non mi scontro con il problema dei medici, che eseguono test su mammiferi o roditori e che ipotizzano per traslazione i risultati nell’uomo. In breve: nessuna estrapolazione, quindi nessun bias!

George mi sorride. Con tono bonario e venato di ironia, mi dice che ho una visione distorta della natura dei bias e di come si esprimono: «I tuoi modelli e algoritmi possono contenere dei bias, perchè scrivendoli tu ti basi sulla tua conoscenza del mondo, e nel caso specifico sulla tua conoscenza di come funziona il corpo umano. Che dipende dalla tua comprensione delle informazioni che ti trasmettono i medici. Naturalmente, non puoi avere la garanzia di averle assimilate tutte alla perfezione. E anche se così fosse, quelle stesse conoscenze possono essere altrettanto parziali. Perchè anche noi medici a volte abbiamo una conoscenza limitata! Sul funzionamento del cervello, per esempio…»

George ha ragione.

Poi mi parla del nostro modello che simula il comportamento elastico del tessuto miocardico in vitro. La scelta dei parametri, la scelta delle equazioni matematiche, o anche la semplice ipotesi di considerare in prima battuta un comportamento puramente elastico del tessuto cardiaco… tutto può essere fonte di bias! Comincio a capire. Pensavo di poter garantire l’assenza di bias perchè giustificavo in maniera rigorosa e sistematica ciascuna delle ipotesi che formulavo nell’algoritmo, ma qualsiasi modello è per natura un’approssimazione, il cui grado dipende anche da chi lo sviluppa. «Il modello rappresenta soltanto una grande ipotesi» spiega George. «Si basa su scelte, consapevoli o meno, e in ognuna di queste scelte si annidano le nostre percezioni, che dipendono da chi siamo, da quel che sappiamo, dal nostro profilo scientifico e da molto altro».

In altre parole: ogni modellazione rimane un’approssimazione della realtà; e anche se le mie ipotesi sono buone, devo guardare al quadro generale: se si basano su dati parziali, risulterà parziale anche il mio algoritmo.

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La tigre di Noto, di Simona Lo Iacono

Un testo di Simona Lo Iacono racconta la genesi del suo nuovo romanzo (in uscita ad aprile) su Marianna Ciccone, la professoressa di matematica e fisica alla Normale di Pisa che nel 1945 respinse da sola un attacco nazista all’università.

Il destino di certi personaggi è iscritto in un codice inaccessibile, che bisogna decifrare. Non si palesano. Si nascondono. Restano in ascolto. Poi, improvvisamente, basta una parola, un segno, persino uno sguardo, ed eccoli. Si presentano. E a quel punto è come se ci fossero sempre stati.

E’ avvenuto così, tra me e Marianna Ciccone, professoressa di fisica e matematica della Normale di Pisa.

Molto prima di sapere della sua esistenza, vagheggiavo una donna che sapesse leggere sui libri come sui numeri. E sulle righe storte come su quelle dritte. Amavo appassionatamente la sua convinzione che per interpretare l’universo servisse non solo la scienza, ma anche la poesia. Mi entusiasmavo se la sentivo dire che nell’armonia del creato, il più piccolo, il più debole, reggeva il più forte. Mi commuovevo se nell’incrocio tra una nebulosa e una meteora, non vedeva una traiettoria matematica, ma un gesto d’amore.

Avevo un solo rammarico.  Pensavo che una donna così non esistesse. Invece esisteva. E mi seguiva da tempo, era lì a interpretare ogni mio passo. Fino a che è venuta allo scoperto.

Era un pomeriggio del 2019. Rientravo dalla casa circondariale di Bicocca, dove stavo mettendo in scena I civitoti in pretura, con un gruppo di detenuti minori. Lo spettacolo si inseriva in uno dei miei progetti rieducativi. Da qualche anno infatti prestavo servizio nelle carceri minorili, dove l’urgenza educativa era più forte, e avevo sperimentato che il teatro, la parola, la poesia, dava gioia, liberava, curava. In quella occasione avevo coinvolto l’avvocatessa Rina Rossitto, attrice del teatro di Noto. Dato che i “miei” detenuti erano tutti uomini, mi serviva una donna che interpretasse le parti femminili. E lei era bravissima.

Proprio mentre rientravamo a Siracusa, Rina mi disse: “Sai, sto recitando a teatro un piccolo monologo, che parla di una donna straordinaria, nata a Noto alla fine dell’Ottocento, divenuta professoressa di matematica e fisica alla Normale. Nel 1945 respinse da sola un attacco nazista all’università”. Rimasi sconcertata.   Le chiesi: “Ma come si chiamava?” 

Rina disse: “Marianna Ciccone, ma è conosciuta come “La tigre di Noto”, per la forza e il coraggio con cui si scagliò contro i nazisti in difesa della biblioteca di Pisa”. Una volta a casa mi misi freneticamente alla ricerca. Internet. Biblioteca. Saggi. C’erano pochissime notizie. Allora chiamai l’assessore alla cultura di Noto. Telefonai alla professoressa che aveva scritto il monologo teatrale. Cercai, rovistai.

La trovai. Era proprio lei. La donna che da anni vagheggiavo, quella che pensavo non esistesse.

Marianna nasce a Noto il 29 agosto del 1891 (secondo quanto risulta dai documenti più attendibili, quelli dell’anagrafe e del casellario giudiziario, mentre in alcuni documenti presenti nella sua cartella personale nell’archivio universitario l’anno di nascita è spostato di un anno, al 1892). Proviene da una famiglia agiata, il padre è un ricco commerciante e lei cresce come le buone signorine dell’epoca. Viene educata per allevare una famiglia. Però. Marianna legge. Sui libri e sui numeri. Sul nascosto e sul visibile. Sa che i raggi stellari hanno un andamento logaritmico, e che i segni – le parole, le formule matematiche – comunicano una verità: tutto è collegato con tutto. Dunque, Marianna Ciccone non esclude nulla nella sua ricerca scientifica. Né la letteratura, né i numeri. E il suo percorso è miracoloso per una donna della sua epoca, soprattutto siciliana, costretta in un ambiente poco incline alla crescita professionale di una ragazza. 

Dopo aver conseguito il diploma per l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole elementari presso la Scuola Normale di Noto, Mariannina frequenta l’Istituto Tecnico di Modica, dove, nel 1914, consegue la Licenza Fisico-Matematica. Questo titolo di studio le è necessario per accedere all’università. Si iscrive infatti alla Sapienza di Roma e poi alla Normale di Pisa, contro il volere della famiglia.

Mariannina sfida da sola un mondo accademico interamente maschile. A Pisa si laurea infatti in Matematica nel 1919, è una entusiasta allieva di Einstein, diventa prima “assistente aggiunto” dell’Istituto di Fisica, diretto da Luigi Puccianti, e poi a partire dal primo dicembre “assistente effettivo”. Prende una seconda laurea in fisica e nel 1935 trascorre un periodo di ricerca nell’Istituto di Fisica della Scuola di Ingegneria di Darmstadt, dove viene in contatto con il futuro Premio Nobel Gerhard Herzberg.

Il suo occhio è allenato alla luce. La scandaglia, la interpreta, la intuisce. Applica i suoi studi di spettroscopia ai primi macchinari in grado di fissare l’immagine, anzi li inventa lei stessa. Con i suoi allievi ha un approccio didattico fuori dal comune, insegna loro che il cielo è un immenso essere vivente che respira, che l’apprendimento è lettura di tutte le cose, dei libri come dell’universo.

Quando i nazisti mettono in atto il programma di razzia delle biblioteche e la c.d. Judenforschung ohne Juden (“scienza degli ebrei senza ebrei”, che prevedeva che il primo passo per eliminare un popolo fosse distruggere i suoi libri) si scaglia come una tigre – completamente sola – verso il drappello di tedeschi che vuole depredare la biblioteca della Normale, perché sa che una aggressione ai libri è una violenza perpetrata ai danni non della cultura, ma della stessa natura.

E’ controcorrente, coraggiosa, visionaria. A distanza di più di un secolo dalla sua nascita, e alla luce degli eventi attuali, possiamo dire che tutte le sue intuizioni sull’armonia delle cose, sul profondo legame tra realtà diversissime tra loro, era fondato e radicato in una vera legge non solo scientifica ma soprattutto morale.

Marianna indagava i fotoni e la legge di gravità, sapendo che non si trattava di equilibri diversi dal comportamento dell’uomo. Non si sposò mai, per non trascurare i suoi studi, e non le fu mai conferita la cattedra, nonostante avesse vinto il relativo concorso, perché donna. Giunta alla pensione, tornò a Noto, dove morì dimenticata.

Eppure, ha avuto la forza di raggiungermi. Nell’anno della pandemia, è stata lei a sostenermi, durante la stesura del mio ultimo romanzo: La tigre di Noto.

Simona Lo Iacono

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Autotrasportarsi in un altro mondo

Elena Dal Pra è la traduttrice del libro Nel paese degli algoritmi di Aurélie Jean. In questo testo racconta la sua esperienza di traduzione.

Quando ho avuto tra le mani le “copie staffetta” dell’edizione italiana – ossia quelle mandate prima che il volume approdi sugli scaffali fisici e virtuali delle librerie – ho pensato che fosse perfetta: quelle catenelle un po’ acquoree che stingevano nella profondità del blu, un po’ numeri un po’ bollicine, evocavano bene lo stato dei miei mesi di immersione nel libro.

Perché se è sempre vero che quando si traduce ci si autotrasporta in un altro mondo, e non se ne esce – quasi neanche fisicamente – fino alla parola “fine”, con il libro di Jean questo è accaduto in una maniera diversa. Perché non si trattava solo di un mondo sì immaginario, o comunque raccontato, ma sempre fatto di persone, storie e accadimenti; si trattava proprio di un’altra dimensione: quella della formalizzazione numerica dietro gli schermi dei nostri device e delle sue catene-reti, così perfettamente rese nel blu sottomarino della copertina. Un “paese delle meraviglie” in cui Aurélie ragazzina si è inoltrata come una novella Alice.

Traducendo, e leggendo, si ha l’impressione che Jean, raccontandoci le tappe della propria vita di scienziata, ci prenda per mano e ci faccia tuffare nelle profondità multistrato di quel mondo. Chiamata a studiare e poi ad applicare gli algoritmi in ambiti sideralmente lontani tra loro, Jean usa le sue esperienze di ricerca come una sorta di obiettivo che si apre e si chiude su paesaggi diversi, dando in parte conto della vastità e varietà di un continente. Così, nel mio lavoro, altrettanto varia è stata la rosa di amici-consulenti che ho mobilitato (e che ringrazio): il medico, il fisico, l’ingegnere, il chimico, il banker, e, ahilui sopra tutti, l’informatico – il lavoro del traduttore si avvale spesso di strumenti umani, oltre che di dizionari cartacei o digitali, non per nulla in inglese esiste l’espressione “walking dictionary”! Ognuno di loro mi ha fornito qualche chiave per approcciare quei mondi, anche se il linguaggio non è mai usato in maniera così tecnica da risultare respingente, e anzi il libro è denso di esempi che danno un corpo molto concreto anche ai concetti astratti. Ogni tanto mi è capitato anche di dover “tradurre al contrario”: dato l’argomento, infatti, mi è successo di imbattermi nel francese in termini tradotti dall’inglese, e che in genere in Italia si usano direttamente nell’originale; in effetti, Jean ringrazia i revisori dell’originale per la pazienza con cui hanno sostituito gli anglicismi, e però auspica l’uso dell’inglese come lingua franca, in una comunità scientifica che vuole linguisticamente “pervia”, a garanzia dell’immediata osmosi del sapere.

Il libro, del resto, nasce proprio da una pulsione etica all’accessibilità della conoscenza. Della comprensione delle dinamiche del mondo digitale (il nostro!) anche da parte dei non addetti ai lavori, Jean ha fatto ormai, con la sua società In Silico Veritas, il suo obiettivo professionale. Si rivolge a noi per trasformarci in “utilizzatori illuminati”, nella convinzione che solo una relativa alfabetizzazione tecnologica – o almeno una consapevolezza dei meccanismi di base – possa difenderci dalla manipolazione, e far sì che siamo noi a governare gli algoritmi e non viceversa. Perché con i loro bias, intenzionali o meno, possono finire per giocarci pesantemente contro o a favore. Quello di Jean è un appello a tutte le componenti della società: politici, regolatori, formatori, cittadini. Ed è un appello che ha il carattere dell’urgenza.

Rispetto ai bias, in particolare, Jean insiste sulla necessità di diversity nei gruppi che concepiscono e sviluppano algoritmi. Solo così si può abbattere il rischio che contengano bias discriminatori nei confronti di alcuni gruppi o categorie, e gli esempi concreti che porta sono lampanti. Qualche riga fa, scrivendo, mi sono resa conto che tutti gli amici che ho consultato nel corso della traduzione – l’ingegnere, il chimico, il fisico, l’informatico, come in una sfilata di piccoli personaggi di Richard Scarry – sono maschi. Unica eccezione è stata un’amica filosofa che si occupa, tra l’altro, di tematiche di genere. Non è un caso: è proprio perché il filo rosso di questo testo è un’avventura di vita e professionale nelle scienze dure, e troppo poche sono ancora le donne che se ne occupano. È uno dei temi forti di Jean, che parla di se stessa come di una femminista naturale, cresciuta dai suoi nonni lontano da stereotipi e appartenenze limitanti.

Questa newsletter esce nella Giornata internazionale delle donne e delle ragazze della scienza: che la potenza e l’energia di Aurélie Jean siano di ispirazione, e ad maiora!

Elena Dal Pra

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Sull’inoculazione del vaiolo a Costantinopoli, di Lady Mary Wortley Montagu

Lady Montagu scrisse questo resoconto, che venne pubblicato in forma anonima, in risposta agli abusi dei medici inglesi che pensavano più a guadagnare che a curare i pazienti. Nel 1721 aveva fatto sottoporre il figlio all’inoculazione, in Turchia, e, in seguito, quando l’epidemia dilagò in Inghilterra fece praticare l’“innesto” anche alla figlia.

Lady Mary Wortley Montagu, “Sull’inoculazione del vaiolo a Costantinopoli”, Flying Post, 13, settembre, 1722. Traduzione di Massimo Ortelio

Mossa a compassione dal gran numero di vittime della furfantaggine e insipienza dei nostri medici, ho deciso di fornire un resoconto verace del metodo dell’inoculazione, così come viene praticato a Costantinopoli con costante successo e senza alcuna conseguenza nociva. Non venderò medicinali, né chiederò parcelle, qualora riuscissi a persuadere la pubblica opinione circa l’assennatezza e innocuità di questa semplice operazione. Non ho alcun interesse (nel senso che siamo soliti attribuire alla parola) nel convincere il Mondo dei suoi errori, ovvero non ne ricaverò alcun profitto, se non l’intima soddisfazione di avere fatto il bene dell’Umanità, e non conosco nessuno che consideri una tale soddisfazione come parte del proprio interesse.

La materia va prelevata da una persona in giovane età e di sana costituzione, affetta dalla forma più benigna del vaiolo e in fase di remissione. L’anziana infermiera che funge da medico in questa contrada di Costantinopoli, raccoglie la materia in un guscio di noce che ne contiene abbastanza da innestare cinquanta persone, contrariamente alla famigerata abitudine che vige qui, ossia di riempire il sangue del malato con tanta materia da mettere a repentaglio la sua stessa vita o quanto meno rendere il decorso del morbo più severo del dovuto. Costei incide le braccia, o talvolta le gambe, con uno spillo e vi inocula la materia con la punta del medesimo spillo mescolandola con la goccia di sangue fuoruscita dalla piccola incisione. La ferita viene subito bendata e la benda viene rimossa dopo dodici o sedici ore, quando compare l’infiammazione, più o meno viva, a seconda che il sangue sia più o meno disposto a ricevere l’infezione.

A quel punto il paziente è confinato in una stanza calda e sottoposto a una dieta leggera, da cui sono tassativamente esclusi il vino e la carne. L’eruzione compare, in genere, sette o otto giorni dopo. Qui non somministrano cordiali per far aumentare la febbre, lasciano che la Natura faccia il suo corso, e conseguono il successo che arride a chi agisce in modo razionale. Quanto ai due sventurati deceduti in seguito a tale pratica, essi non possono che essere vittima dei nostri dotti medici, verso i quali nutro troppa ammirazione per pensare che non sapessero ciò che stavano facendo, mentre indebolivano corpi in procinto di affrontare la malattia. E la mia opinione ha trovato conferma nel modo inverosimile con cui le due morti sono state presentate dai fogli quotidiani.

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Sulla ricerca di informazioni, Google Maps e l’importanza dei luoghi. Conversazione tra Tracy Chevalier e Paulette Jiles

Tracy Chevalier è autrice di otto romanzi storici, compreso il best-seller internazionale La ragazza con l’orecchino di perla e i due romanzi d’ambientazione americana I frutti del vento e L’ultima fuggitiva. Paulette Jiles è poetessa, autrice di romanzi e di un libro autobiografico. Ha scritto, tra gli altri, i romanzi Enemy Women e Notizie dal mondo, pubblicato da poco in Italia.

Tracy Chevalier: Enemy Women mi è piaciuto molto, e ho divorato Notizie dal mondo. Sei bravissima a combinare personaggi vivaci, una trama avvincente e un linguaggio poetico, ti invidio. Anche se i due libri sono diversi, sono entrambi ambientati nel West americano del Diciannovesimo secolo e parlano di viaggi in terre selvagge e di una società in preda alla violenza. Soprattutto, hanno due eroine straordinarie. Esito a usare l’aggettivo «bellicose» per descrivere Adair e Johanna, perché può avere una connotazione negativa. Ma è una parola che mi è sempre piaciuta: per me significa essere volitivi con l’aggiunta di uno spruzzo del piccantissimo Tabasco. Come le descriveresti, e come sei riuscita a crearle? Continue reading Sulla ricerca di informazioni, Google Maps e l’importanza dei luoghi. Conversazione tra Tracy Chevalier e Paulette Jiles

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GOOD PEOPLE – Un racconto inedito di Richard Russo

Perfino alla luce soffusa del bar affollato, i capelli rosso fuoco di Tana erano come un riflettore. Avvicinandomi mi domandai (e non era la prima volta) cosa ne sarebbe stato nel futuro non troppo lontano in cui avrebbero cominciato a ingrigire. Un rosso come quello non si trova nelle boccette di tintura. Si sarebbero smorzati gradualmente, oppure si sarebbero spenti in un batter d’occhio, come la fiamma di un faro?

Infilandomi a sedere accanto a lei dissi: “Come hai fatto ad aggiudicarti il posto migliore del locale?” Era l’ultima settimana di lezioni e il bar era zeppo di gente.

“Alle persone buone succedono cose buone” mi rispose fissando con evidente comprensione il mio orribile sfregio. Anche a quelle cattive: be’, non c’era certo bisogno di specificarlo. Poi continuò: “Cazzo, quello sì che è un occhio nero”.

La ignorai e dalla brocca coperta di condensa al centro del tavolo mi versai una birra. “Dov’è coso?”

“Indovina”.

“Di già?” dissi. “Da quant’è che siete qui? Un quarto d’ora?”

“Ha la vescica di una sessantenne con dieci figli”. Continue reading GOOD PEOPLE — Un racconto inedito di Richard Russo

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