Favola familiare

Bérengère Cournut

Due anni fa, quando Di pietra e d’osso è uscito in Francia, mi è stato chiesto se secondo me la letteratura consistesse nel rivisitare la propria vita. Ho avuto l’impulso di rispondere «no», tanto la letteratura è per me sinonimo di un altrove assoluto. Come lettrice sono assetata di universi stranianti, di scritture capaci di farmi penetrare in altre dimensioni dell’esistenza, di sguardi sulla realtà che siano sfalsati. Ecco perché leggo volentieri poesia o opere scientifiche più che romanzi, che troppo spesso mi sembrano narrazioni molto simili a come si svolgono le nostre vite, in qualunque epoca siano ambientati. Perché mi interessino, devono per forza far emergere da qualche parte l’inconsueto, per rivelarmi una realtà diversa da quella immediatamente percepibile. Da qui il mio amore per le leggende o i miti, che costringono i personaggi a incontri o situazioni in grado di rivelarli a se stessi o, perlomeno, trasformarli. Spingendomi anche oltre, dirò che dalla letteratura mi aspetto sempre, più che una rivelazione, una vera e propria «metamorfosi».

Eccelsa esigenza, direte voi, probabilmente molto difficile da applicare a sé. Proprio per questo, quando scrivo non mi pongo tante domande. Ci sono  ̶  da sempre  ̶  la voglia, il bisogno, la necessità, e lascio che mi attraversino a lungo idee, immagini, istinti … fino al giorno in cui tutto viene fuori, sotto forma di una storia. Anzi, direi, sotto forma di un percorso. Infatti, man mano che scrivevo libri, se per tanto tempo mi sono rifiutata di raccontare qualcosa di me stessa, della mia vita, nei suoi particolari, nelle sue vicissitudini, temendo soprattutto lo sfogo e la mancanza di distacco che renderebbero noioso o impudico il racconto di sé, ho però descritto spesso paesaggi che mi erano famigliari. I paesaggi sono a disposizione di tutti e, così, non mi esponevo a niente di spiacevole.

Tranne che, fin dal primo romanzo, intitolato L’écorcobaliseur, una specie di favola famigliare e surrealista (nonché un omaggio quasi inconscio al poeta Henri Michaux, che ha ispirato quel titolo impronunciabile…), la topografia dell’ambientazione, dove terre e mare si sposano e si confondono, riprende con grande precisione quella di un luogo estremo che ho frequentato da bambina: una costa bretone dove i miei genitori e io avevamo passato l’ultima vacanza insieme, alcuni mesi prima che morisse mio padre.

Da principio questa scoperta mi ha davvero turbata, tanto era stato involontario da parte mia. Poi, di testo in testo, che fossero romanzi o brevi narrazioni poetiche, ho constatato che i paesaggi si facevano sempre carico, per quanto a mia insaputa, della componente intima dei miei racconti.

Fino al giorno in cui ho deciso di avvalermene, trasponendo in un paesaggio desertico il «mio» personaggio di orfana. Ero di ritorno da vari mesi passati in New Mexico e in Arizona, dove avevo scoperto la cultura dei nativi americani chiamati Pueblo, le cui pratiche (sociali, religiose, artigianali) si fondano tutte su una vita in sintonia con la Terra Madre sulla quale vivono: altopiani aridi. Il mio primo impulso era stato descrivere che cosa possa significare per una bambina l’assenza del padre, e a tale scopo il deserto mi sembrava il luogo ideale. La scommessa era questa: se riesco a incrociare la mia esperienza con quella di una bambina hopi (il popolo facente parte del gruppo dei Pueblo che avevo scelto), forse potrò pervenire alla piccola componente universale dell’esperienza che voglio descrivere: quella della perdita e dell’assenza, che viene colmata dall’ambiente in cui si vive.

In Di pietra e d’osso il procedimento è lo stesso: con il supporto di una cultura millenaria, la cultura degli inuit, questa volta, che vive in tutto e per tutto secondo le leggi del paesaggio e del clima dell’Artico, dove persino il tempo è diverso dal nostro nella sua alternanza giorno/notte, ho voluto esplorare in modo ancora più radicale la perdita e la ricostruzione, attraverso una protagonista che, fin dalla prime righe del romanzo, viene a trovarsi irrimediabilmente separata dalla sua famiglia perché si spezza la banchisa. Per sopravvivere, deve cercare di integrarsi in un altro gruppo e trovarvi il proprio posto, formare la propria famiglia. Non ne parlo volentieri, ma devo ammettere che la genesi di questo romanzo affonda le radici nel periodo cruciale, ed estremamente difficile, della mia vita in cui mio marito e io non riuscivamo a concepire un figlio. Allora avevo bisogno di esplorare paesaggi ostili nei quali, nonostante tutto, fiorisce la vita, nei quali dentro gruppi, famiglie, individui, esistono altri modi di unirsi e di trasmettere la vita.  

Così, alla domanda «Attraverso la letteratura lei rivisita la sua vita?» ormai posso rispondere di sì, nel senso che vi traspongo noti percorsi miei (siano essi paesaggi o percorsi di vita) in altri territori, in altri mondi diversi dal mio. Così facendo, mi reinterpreto e mi metamorfoso – accumulando sulla mia pelle di scrittrice i sedimenti di altre culture, di altre storie, di altre famiglie elementari, diverse da quelle da cui provengo io.

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