Questo romanzo narra di Anna Maria Ciccone, una donna e una scienziata che visse in un’epoca che le fu ostile, un tempo di ostinati pregiudizi e barbarie totalitarie.
Nata a Noto nel 1891, partì dalla sua Sicilia e arrivò a Pisa poco prima che scoppiasse la Grande Guerra per studiare fisica: unica donna del suo corso. Insegnò alla Normale e seguì per un’intera vita le traiettorie e le intermittenze della luce, perché la spettrometria era l’oggetto dei suoi studi. Studi che ebbero una vasta risonanza persino nel campo della nascente meccanica quantistica molecolare. Oggi diremmo che si impose in un mondo maschile. Ed è certamente vero. Oggi parleremmo della sua passione, della sua forza e del suo coraggio nel riuscire a salvare, nel 1944, i testi ebraici della biblioteca dell’università di Pisa dai nazisti che volevano requisirli e poi distruggerli.
La sua figura non è riconducibile, tuttavia, soltanto alle sue pionieristiche ricerche o alle sue impavide azioni. Con uno sguardo che attraversa il suo tempo, Simona Lo Iacono ritrae la vita di una donna capace di affermare in ogni ambito dell’esistenza la forza della sua fragilità.
Ne esce un romanzo che non si lascia definire, che ci costringe a convivere con una nostalgia tenace, il racconto di una geniale fisica e matematica che seppe mostrarsi al mondo con la compostezza e il pudore di chi, nel buio dell’universo, cerca di guadagnare sempre, con fede ostinata, un piccolo bagliore di conoscenza. Perché, parafrasando Goethe, è proprio quando le ombre sono più nere che riusciamo a scoprire il potere della luce.
Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970, è magistrato e presta servizio presso il tribunale di Catania. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Le streghe di Lenzavacche (Edizioni E/O), selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega.
Della vita resta poco. Il tempo macina tutto e anche le imprese più eroiche se ne vanno come polvere sospinte dal vento.In un gradevole romanzo “La tigre di Noto” Simona Lo Iacono è riuscita a ricostruire, in buona parte immaginando, la vita di Marianna Ciccone, nata a Noto nel 1891, prima donna a laurearsi alla Normale di Pisa e a avviare ricerche scientifiche .La lungimiranza come scienziata l’ha fatta abbracciare le intuizioni di Einstein superando ogni chiacchiericcio accademico attraverso la sperimentazione.La sua potrebbe essere definita una vita alla ricerca della luce: si occupava infatti di spettrometria molecolare, curiosa fin da piccola di scienza e delle varie espressioni della luminosità. Marianna Ciccone ha vissuto un tempo attraversato da funesti eventi come la prima e la Seconda guerra mondiale e la persecuzione degli ebrei . Ha però saputo prendere posizione e salvare i testi ebraici della biblioteca dell’università seppellendoli in un prato nonché una parte dell’Istituto di Fisica fronteggiando l’attacco nazista. La Lo Iacono ha salvato dall’oblio questa donna siciliana come lei, illustrando il superamento di un destino che avrebbe mortificato la sua intelligenza..Nel libro la bimba segnata da un’ orfanità di affetti, vissuta in seno a una famiglia ligia al dettato sociale, riesce a connettersi con se e a definire le sue passioni. La giovane donna opera tagli coraggiosi per insegnare con passione. Vive anche un amore tardivo e una maternità insperata giuntale tra le braccia in un rifugio antiaereo durante i bombardamenti di Pisa.L’autrice scontorna con efficacia la protagonista, dando spessore ai sentimenti e ai vissuti, crea una piccola compagine di persone al suo fianco.Lo fa con una scrittura immaginifica, votata alla sottrazione, solo qui e là, compiaciuta di se.
Con pochi elementi storici appurati – e dichiarati – l’autrice è riuscita a costruire una biografia romanzata avvincente che mi è piaciuto leggere nonostante qualche domanda. Ho apprezzato l’espediente letterario dell’uso delle foto in un dialogo – che si scopre poi – con la figlia adottiva; questa apertura permette all’autrice di tessere la storia che si sviluppa in modo cronologico, punteggiata dai dettagli. Pervade il libro una certa aria dolente e allo stesso tempo favolistica: dolente nelle difficoltà del personaggio principale a percorrere la sua strada di studiosa/scienziata e il pessimo rapporto con una madre anaffettiva e un padre distratto – favolistica nelle descrizioni della casa e della madre e nell’uso curioso dei fatti storici.Si registra la predominanza affettiva dei personaggi femminili che sanno generare gesti di solidarietà intorno a lei mentre l’ambiente lavorativo è prevalentemente maschile e ostile al suo avanzamento professionale. Ma Marianna non rinuncerà alla sua determinazione. Il tema del femminile e del materno è decisamente al centro dell’opera: Marianna priva di una cura generosa vive come contrappunto una maternità adottiva accogliente, affettuosa e devota. Una risposta alla maternità desertica della sua infanzia? Proprio da qui sorgono alcune domande importanti per il libro: i riferimenti storici (la Germania degli anni ’30 e l’apparire del nazismo, la guerra e il bombardamento di Pisa, l’accenno alla possibilità di Roma, la sua cura dell’Università e delle sue strutture) contribuiscono alla costruzione del contesto del racconto ma alcune scelte dell’autrice sembrano curiose. La bambina che si trova fra le braccia nel buio di un rifugio di guerra non è solo orfana, è anche ebrea e persino muta. La lettera d’encomio a proposito del suo salvataggio di testi e strumenti dell’università viene accompagnata da dettagli eccessivi: nella realtà o nella favola si salvano i libri sotterrandoli? La domanda da porsi, in realtà, è solo sulla coerenza interna del testo e sul rapporto realtà-finzione in un ambiente caratterizzato da forte severità/impronta scientifica e quindi razionale. A Marianna Ciccone sembra non essere mancato proprio nulla. La lingua ricca, sensuale che si sviluppa a cerchi concentrici, ricercata, con uso di parole dialettali riviste, siciliana e talvolta barocca, ostentata ma sempre fortemente evocativa, incuriosisce e trasporta in un’avventura sconosciuta ma avvincente e sostanzialmente verosimile. Bellissime le descrizioni di Pisa e Roma e la scoperta della sua femminilità attraverso un abito da festa, verde.
Una prosa appassionata, decisamente ricca. Una storia scritta con garbo, che ci restituisce la figura di Anna Maria Ciccone, una scienziata, studiosa italiana pressoché sconosciuta. Determinata, tenace, curiosa. Animata da una indomita forza di volontà e uno sconfinato amore per il sapere. Così ce la presenta Simona Lo Iacono, costruendo un romanzo di fantasia sulla base di poche notizie bibliografiche. Prima donna a laurearsi in matematica e fisica alla Normale di Pisa (dove insegnerà per tutta la vita), la Ciccone viene ricordata per il coraggio con cui fronteggiò un gruppo di soldati nazisti intenzionati a razziare strumenti di laboratorio e testi ebraici dall’Istituto di Fisica. Questo gesto le varrà l’appellativo di “tigre di Noto”, con riferimento alla sua città di provenienza. Ho apprezzato le figure femminili che l’autrice ha immaginato intorno alla protagonista: tra queste Rosa, la tata, donna semplice, ma saggia e la Cate, l’affittacamere che scopre i libri in tarda età. Interessante e ben costruito il personaggio della madre, anaffettiva, perennemente insoddisfatta, attenta alle apparenze, prigioniera della forma e delle convenzioni, “l’occhio della gente è una cosa importante, diceva, si vive anche per gli altri”. Una lettura davvero gradevole.
È un’esperienza appagante leggere, sentire, vedere i libri di Simona Lo Iacono. Ogni pagina ci regala delle piccole perle incastonate in una scrittura lineare ed elegante, discorsiva e al contempo essenziale ma non scarna, invece poetica ed esaustiva, che nasconde e tuttavia svela: con pochi tocchi crea un’atmosfera, compare un’immagine, si raccontano sentimenti ed umori. Il tono è lieve e delicato, anche quando racconta la difficoltà del vivere.
Qui, con maestria, l’Autrice ci racconta la storia sconosciuta di Marianna Ciccone, donna, scienziata forte e particolare, e ce la dona già da subito come personaggio empaticamente affine nella sua particolarità.
L’esposizione rende agevole e piacevole il dipanarsi della vicenda di Marianna, inventata nella parte intima e privata ma reale nel suo ruolo pubblico, tanto da dare spessore e credibilità alla donna Marianna, ai suoi sentimenti, al suo particolare sentire e alla sua intelligenza e al suo grande valore.
La luce diviene assoluta protagonista, caratterizza il personaggio, ne è un tratto distintivo ed è la sua particolarità («Era sempre stato così per me. Conoscevo i luoghi attraverso la luce, entravo nelle città guidata dal sole») ed è bella l’idea di partire dall’album fotografico dei ricordi da cui si dipartono le esperienze di vita di questa donna forte e intelligente, concreta e sensibile, caritatevole e determinata, misconosciuta e tuttavia reale.
L’unico appunto alla Tigre di Noto è che a volte indulge troppo nelle immagini allegoriche e nei riferimenti sentimentali e nostalgici (« i libri che si stanno amando»).
Rimane ben poco di alcune vite. Fortunatamente esistono scrittori che riempiono verosimilmente i vuoti di quelle vite sconosciute che, come per incanto, arrivano sino a noi.
Simona Lo Iacono, in questo libro, porta alla ribalta Marianna Ciccone classe 1891, prima donna laureata in fisica e matematica alla Normale di Pisa, creandone una biografia romanzata, dove la fantasia, mai eccessiva, ci trasporta in un mondo scientifico dei primi decenni del 1900.
Narra di una donna, più che di una scienziata (ha contribuito a far nascere la meccanica quantistica), e del suo modo di essere donna all’inizio del secolo scorso.
Con la potenza della parola e con scarso materiale biografico a disposizione, l’autrice si fa interprete di ciò che è accaduto nella vita della protagonista e riesce a farci comprendere con quale forza, questa figlia della terra di Trinacria, si sia fatta spazio in un’epoca che vedeva la figura femminile relegata esclusivamente al continuare la stirpe e ad accudire, fino all’ultimo respiro, i propri genitori.
Il romanzo si snocciola sfogliando un album fotografico, che Marianna mostra alla figlia adottiva, mentre le narra il percorso della sua vita intrapreso sin da bimba.
Figlia non amata da una madre che non vede in lei la somiglianza fisica e mentale e che interpreta come un tradimento questa mancanza di riconoscimento, vive cercando e praticando l’accettazione della diversità, ambendo a svelare il mistero della maternità.
Fisica e ricercatrice caparbia, trasforma i vari ostacoli che incontra in opportunità, scontrandosi quasi con tutto ciò che la circonda. Donna che fa prevalere la voglia di vivere con quella sua innata ricerca della luce, che altri non è se non un passaggio attraverso il buio per arrivare alla luce stessa. Donna che mette a repentaglio la sua vita, tenendo testa ai nazisti, ostacolando la distruzione dei testi, degli strumenti scientifici e dell’università stessa, per amore della scienza e per la pura voglia di tramandare, a qualunque costo, quei cari compagni che sono i libri.
Ne emerge l’immagine di una donna coraggiosa di grande livello, forte lettrice, ricercatrice anche di bellezza e di poesia, forse una profetessa in parte non riconosciuta, poiché antesignana dei tempi.
L’autrice ricama intorno a lei figure emblematiche: una tata che ha capito davvero la vita e che sostituisce negli affetti e nelle relazioni una madre ostile; una figlia adottiva che non parla in un mondo pieno di parole; un collega, futuro premio Nobel, che vive sulla propria pelle l’antisemitismo.
Grandiosa Simona che creando alcuni personaggi non realmente esistiti, ci ha fatto credere che abbiano davvero affiancato la tigre di Noto, rendendole la vita migliore!
Forse, ripensandoci (perché per comprendere i libri, bisogna farli sedimentare come i vini pregiati), Marianna Ciccone trasportata ai nostri tempi, per alcuni versi, non è un po’ simile a Simona Lo Iacono? In fondo scrivendo di altri non trasponiamo su carta anche qualcosa di noi?
“…ogni volta che stavo per finire un libro… l’anima si sfarinava…
Era quello stato febbrile che mi faceva comprendere che ero sulla buona strada.
Un’eccitazione che chi non legge i libri ignora.
Approssimarsi al senso ultimo.
E poi guardare a ritroso, ripescare le briciole lasciate cadere da un pane malfermo su un sentiero che io sola avevo percorso.
Nella vicenda di Marianna Ciccone, personaggio sorprendentemente dimenticato tra le pieghe della storia, colpisce prima di tutto la determinazione, la capacità di resistere alle pressioni dell’ambiente e di vedere chiaramente il proprio obiettivo (nonostante l’occhio ribelle, o forse proprio grazie ad esso) : in fin dei conti, deviare dal percorso assegnato a una ragazza siciliana di buona famiglia, nei primi anni del Novecento, scegliere lo studio – oltre tutto di materie così “poco femminili” come quelle scientifiche – e affrontare la conseguente opposizione familiare non deve avere richiesto molto meno coraggio che tenere testa a un plotone di soldati tedeschi. Nella sua solitudine di bambina poco amata dalla famiglia ma cresciuta dal caldo affetto di una governante, Marianna ricorda per certi versi il piccolo Tomasi di Lampedusa, protagonista dell’Albatro; ma nonostante tutto riuscirà a realizzare la propria missione nella ricerca, nella cura sollecita degli studenti, nella difesa di un tesoro fatto di libri e conoscenza… e anche, almeno nella finzione narrativa, in un’esperienza di maternità tanto imprevista quanto intensa e appagante.
Abbiamo visto tutti le immagini agghiaccianti dell’aeroporto di Kabul, migliaia di persone che compiono sforzi sovrumani per tentare di sfuggire ad un destino terribile in patria, cercando una speranza di vita migliore in un luogo ed in un futuro imprecisato ed ignoto, e tuttavia sentito, pur nella sua vaghezza, come preferibile al restare là, anche se quella è la terra dei propri morti. Lo spettacolo più tremendo è stato quello di vedere madri che compivano il gesto più estremo di disperazione e tuttavia di speranza: quello di affidare, con sguardo supplice e senza parole, il proprio bambino ad uno sconosciuto, separandosi per sempre da quel frutto delle proprie viscere pur di provare a farlo arrivare in un posto meno intollerabile di quello che il territorio afghano minaccia sinistramente di diventare dandone già segni terribilmente concreti: è impossibile capire, o almeno descrivere, quale tempesta di dolore e di paura possa spingere una madre a compiere un simile gesto e così inumano sacrificio, quale terrore cieco, ed amore senza limiti, debba averla pervasa per indurla ad un atto così estremo e quasi certamente senza ritorno né immaginabile continuità. E’ l’inferno dei vivi di Kabul, una realtà spaventosa che supera ogni fantasia.
Mi trovo per caso a leggere, in questi giorni, un libro di una bravissima scrittrice siciliana, Simona Lo Iacono (che ha circa cinquant’anni e fa il magistrato a Catania – oltre a molte altre cose): “La tigre di Noto” (Neri Pozza editore, 2021). La cui protagonista, Marianna Ciccone nata appunto a Noto, insegnava alla Normale di Pisa (dove dalla Sicilia era andata a studiare e vi si era doppiamente laureata) quando su quella città si abbatté l’inferno. La fervida fantasia della scrittrice (che precisa alla fine del libro che le vicende narrate sono in parte verità storica, in parte frutto di fantasia) ha immaginato in alcune pagine di quel libro scene e fatti che richiamano alla tremenda realtà afghana di questi giorni, prima che essi avessero luogo: uno dei segni del suo grandissimo talento letterario, del quale ha già dato molte e fulgide prove.
«Il 31 agosto 1943 Pisa fu bombardata………..In tutto caddero, da un’altezza di seimila metri, 480 tonnellate di esplosivi. Il cielo si fece di calce, nuvole come grovigli, a incatenare l’orizzonte. Sembrava che non restasse più nulla della creazione. Poi, all’improvviso, qualcuno adagiò un corpo infagottato fra le mie braccia, pesava poco più della borsa, era in apparenza immobile ed estraniato, ma poco dopo si mosse………….Non seppi mai chi fece quella consegna nel momento stesso in cui il mondo pareva finire, né compresi se a quel lascito fossero aggiunti un nome o delle parole. Semplicemente aprii le braccia e ti presi» – dice la donna parlando alla bambina che le era come piovuta fra le braccia – «eri la prova che la bellezza non aveva smesso di nascondersi fra le rovine………….Tra i tanti che perdevano qualcosa, io quel giorno ti trovavo, miracolosamente intatta, preservata per quel nostro incontro decisivo. Più che con stupore, ti guardai con sollievo, abbracciarti era il modo più sicuro di resistere alla guerra……………..Vivere non fu mai così facile dentro la morte».
C’è da augurarsi che a Kabul avvenga altrettanto, e che quei disgraziati bammbini trovino altrettanta umana accoglienza, per far segnare alla vita qualche punto contro la morte.