La mia Milano non è una cartolina

Flavio Villani

Ho iniziato a scrivere storie crime ambientate a Milano per due ragioni: la prima, la più ovvia, è che a Milano sono nato e ho vissuto gran parte della mia vita. La conosco nei dettagli. Ce l’ho incollata addosso come un abito. Un abito molto usato e confortevole. Mi ci sento a mio agio. La mia Milano non è una cartolina o una guida turistica: la mia vita ci si riflette come in un vecchio specchio di casa.

La seconda, meno ovvia, è che Milano è una città perfetta per il genere letterario che mi piace frequentare, il noir, ma è anche adatta alla mia scrittura. A tale proposito mi si conceda di utilizzare una metafora pittorica, una sorta di schema interpretativo per chiarire a sommi capi come la mia scrittura si intoni a Milano e viceversa: mutuando il concetto dalla pittura, considero la mia scrittura “tonale”; una scrittura dominata dall’attenzione ai chiaroscuri, che siano riferiti agli ambienti o ai caratteri dei personaggi. Ogni oggetto, ogni carattere, è modificato dalla luce incidente sulla sua superficie; la luce evidenzia e nasconde, crea nuance, proprio come avviene sulla tavolozza di un pittore. Questo tipo di scrittura si oppone a scritture fatte per contrapposizioni assolute di “timbri” diversi, colori puri, assenza di sfumature. Nella prima tra mondo circostante e osservatore vi è un continuo scambio, un continuo influenzarsi a vicenda. Nella seconda il mondo rappresentato è la proiezione di un’idea che viene gridata senza mezzi termini. Il nero è nero, il bianco è bianco, non c’è margine per l’infinita tonalità dei grigi.

Ebbene, Milano per me è una città tonale, fatta di chiaroscuri, una città notturna: d’inverno la luce è filtrata dalla foschia che cala sulla città alla sera, d’estate i colori sfumano nella caligine del mezzogiorno, sotto il cielo lattescente d’umidità.

Ne La banda degli uomini ho ricostruito la Milano degli anni ’30, rappresentandola così, in chiaroscuro, in sfumature di bianco e nero, nelle gamme dei grigi e nelle nuance terrose che si ritrovano nei paesaggi urbani di Mario Sironi. In questo romanzo ho portato alle estreme conseguenze la mia propensione a raccontare il passato. Per farlo ho frequentato i luoghi che ancora portano i segni di quell’epoca: Città Studi, con i suoi viali alberati, le basse costruzioni circondate da muri di quelli che un tempo erano i moderni istituti della Regia Università, per poi procedere verso il razionalismo dei palazzi di via Teodosio e le case popolari di via Porpora, e, verso est, Lambrate, all’epoca un borgo di campagna, sfiorato appena dalle ultime propaggini della città. Frequentando quell’epoca ho scoperto luoghi che non esistono più, come il Miralago, un lago artificiale tra piazza Udine e via Feltre. I milanesi, quando le vacanze erano un lusso per pochi, ci arrivavano in tram, per passare ore spensierate affittando barchette a remi, mangiando al ristorante affacciato sul lago, prendendo il sole sui prati. Non avevo idea della sua esistenza, e non ricordo come l’abbia scoperto, so solo che quel luogo nel ’40 è stato teatro di un clamoroso omicidio, e che alla fine della guerra vi furono trucidati dei partigiani. Almeno, così si racconta. Il lago è stato interrato subito dopo la guerra. Forse non rendeva come un tempo, la gente, ricordando quelle storie nere, non ci andava più. Adesso su quell’area sorgono un enorme supermercato, un giardino e il commissariato di zona, e nessuno sembra ricordarsi della sua esistenza. Ma troppi fantasmi s’aggirano da quelle parti, troppi per non raccontarlo.

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