La tigre di Noto

di Simona Lo Iacono

Un estratto del romanzo La tigre di Noto

Quando mi presentai al collegio delle suore Misericordiose, a Roma, era il 1915.

Il campanello stridette, arrochito. Dallo scalino su cui sostavo, sentii un risuonare metallico che valicava i chiostri e i corridoi.

Avevo poche cose con me. Una valigia di pelle, con dentro i ricambi d’abiti e due paia di scarpe. La cassetta delle lenti e dei materiali ignifughi. Un manuale sulle intuizioni di Albert Einstein, che avevo letto in treno per accertare se il tempo avesse davvero stretto parentela con la velocità e con lo spazio.

Era un settembre in fuga.

Nelle orecchie pulsava ancora il ritmo delle rotaie che dalla Sicilia mi avevano portato fin lì. Un vagone di terza classe stipato di famiglie, con i sedili cigolanti e appiccicosi, su cui sedevamo facendo dondolare le teste.

Sotto di noi sdirupavano i fianchi di Taormina, i valichi dello stretto, le bocche infernali di Scilla e Cariddi. Salire verso il continente era un viaggio che ci separava e ci allungava, mentre alle spalle ci lasciavamo l’isola, e ne sentivamo il calore, ma anche il dolore.

Tutto dava un lamento.

I pacchi stipati ai nostri piedi. I vasi di provviste che si sbeccavano contro i fiaschi. La gabbia in cui si consumava la lotta di due gallinacci in amore, pronti a ferirsi.

La suora mi sogguardò dallo spioncino, poi aprì con cautela, accertandosi che fossi Marianna Ciccone, la siciliana venuta a studiare matematica alla Sapienza. Si accomodi,

signorina, disse nello sferragliare di un groppo di chiavi. Mi segua.

Quando le porsi la mano mi sorrise, aveva la pelle liscia come quella di un neonato. Nel suo sguardo, invece, lessi riguardo e compassione. Che una donna sola si avventurasse in tempo di guerra a frequentare un ateneo, le pareva non solo pericoloso, ma anche inutile, una sfida alla legge della necessità.

Sospirò e mi introdusse nella mia nuova stanza con lentezza.

La cella che mi assegnarono era la numero tre, aveva un letto e un lavabo, i bagni si trovavano al piano. Dalla finestra che si apriva nel cortile si slargavano i raggi romani, una qualità del sole che aveva molto a che fare con la pietra e con le catacombe.

Aprii la valigia per sistemare le mie cose, erano così poche che impiegai solo qualche minuto. Tre abiti in tutto e un cappotto per quando sarebbe arrivato il freddo.

Calze, un solo paio. E per la toilette, una spazzola a setole grosse.

La suora mi consegnò gli asciugamani puliti, disse di non spaventarmi se durante la notte qualche spiffero maligno avesse ululato tra le tegole. È perché stiamo rifacendo

il soffitto, mi rassicurò. Ma le anime penitenti stanno alla larga dai collegi clericali.

Diedi uno sguardo al giardino.

Una novizia vangava l’orto. Un’altra potava una siepe e raccoglieva l’erba secca. Un roseto brillava più in là come una ferita. E poi. Aiuole di spiree, panchine di marmo rosa, filari di aceri, frassini, noci.

L’occhio buono tremò leggermente, s’incantò di bellezza. L’altro, che aveva l’abitudine di legarsi alla stravaganza delle cose, colse il fumo che sconfinava dalle cucine e puzzava di rape macinate.

Le campane davano il segno, sfioccavano supplici ed esaudienti, richiamando per il pranzo.

Non sembrava di essere in guerra.

L’indomani mi presentai alla facoltà di matematica da matricola, il mio numero era il diciassette.

La strada che dal convento portava all’università era ingolfata da tram e carrozze, studenti chiassosi e signori a passeggio.

Qualche ragazza si riparava sotto l’ombrello, altre prendevano a braccetto la vicina e borbottavano contro il fango che schizzava la strada.

Erano le otto, e io pensai che in quel momento a Noto si recitavano le lodi. Che le gazze intorpidite del Duomo svolazzavano verso il mercato per becchettare gli avanzi.

Mi strinsi nella camicia legata al collo, cercai di riportare l’occhio storto a una direzione più ordinaria. Quel difetto aveva acuito in me ogni passaggio, dall’infanzia all’adolescenza, frenando ogni mia vera partecipazione al mondo.

Troppo difficile fingere di avere uno sguardo sommesso, che non forzasse la vita, che si adeguasse a essere naturale.

La mia pupilla virava, seguiva i pensieri, fiutava gli enigmi matematici e decideva di sottrarsi al corpo. Non era mai stata un’alleata della mia età, mi aveva fatta sbocciare su un altro pianeta, disadorno, inattuale.

Anche nella moda, non mi aveva mai aiutata. Mettevo la gonna sempre un po’ di sghimbescio, sbagliavo la direzione del cappellino, capovolgevo i guanti. Ciò che per gli altri era dritto, per me era incrinato, pronto a sfiorire.

Ma in compenso, riuscivo a penetrare il pulviscolo atmosferico, a cogliere le variazioni del sole, a stanare la luce là dove altri vedevano il buio. L’occhio mi chiamava ad altri spazi, solitari e tempestosi, a domande che esigevano impellenti soluzioni.

Perché l’aria sconfinava nel cosmo? Cos’era che ci guidava verso l’eterno? Dove, dove correvano le stelle?

Quando entrai in aula e presi posto, gli interrogativi pressavano, ghermivano l’aria, svolavano sulle teste degli studenti.

Finsi di non accorgermene e feci attenzione a calare la veletta fino al naso, in modo da nascondere quel mio segno inopportuno.

Il professore entrò, salutò, ci contò velocemente.

Si soffermò su di me e sorrise.

Ero l’unica donna.

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