Angela Nanetti
“Si è sfilato la cinghia, e giu’sulle gambe…”
Vengo da un tempo in cui frasi come queste potevano essere pronunciate senza vergogna, quasi con naturalezza, un tempo in cui non pochi erano i padri che si sentivano autorizzati – “quando ci vuole ci vuole” – a farsi giudici e giustizieri dei propri figli. Talvolta però poteva succedere che gli occhi paterni diventassero ciechi, e allora la cinghia saliva e raggiungeva la schiena e le braccia chiuse a uovo, a proteggere la testa.
Le ire dei padri! Nessuno, che io sappia, le contestava, perché servivano non solo a correggere il figlio “storto”, con la coscienza di aver fatto la cosa giusta, ma a sbollire rabbie, frustrazioni e stanchezze, nei ceti più poveri anche l’alcool, di colui che era riconosciuto da tutti come il capo. “È un ribelle, non rispetta le regole, se lo merita!”
Ma Giulio, il protagonista del romanzo, non è un ribelle, è un irriducibile. Fin da bambino fa parte di quella ristretta cerchia di eletti o di dannati caparbiamente fedeli a sé stessi piuttosto che alle regole, vantate dal padre come “il fondamento del vivere civile”. Regole che lui, giudice presso un tribunale locale, impone piu’ agli altri che a sé, nascondendo dietro il rigore e una sapienza giuridica formale il suo narcisismo inappagato, le sue ambizioni frustrate, i fallimenti e le ombre che lo tormentano.
Inconciliabili il padre e il figlio, per l’irriducibile diversità di Giulio fatta di sensibilità profonda e di inquietudine, che lo spinge a ignorare il tempo e le convenienze e a cercare cieli, boschi e animali, unico habitat in cui si sente pienamente accolto, con un’adesione così totale da sfiorare lo sperdimento. Una diversità la sua che richiederebbe, a fargli da guida, l’attenzione vigile e amorosa che ha per lui la madre, non la durezza venata di disprezzo che padre gli riserva e che porterà alla tragedia. La quale, dapprima sottaciuta e poi sminuita fino a essere rimossa, accentuerà l’estraneità di Giulio e scaverà una incrinatura sempre più profonda nelle relazioni familiari fino alla loro deflagrazione. Il primo a entrare in crisi è il rapporto tra i fratelli e Vittorio, il fratello minore che lo aveva idolatrato, finirà per vederlo con gli occhi stessi del padre, un dio fallito, un pianoforte scordato, uno che ha sperperato da irresponsabile i molti doni ricevuti.
Egli si renderà conto troppo tardi, nel breve tempo che trascorrono insieme, forse un tempo finale, che Giulio è fatto di una materia diversa, che le stimmate sul suo corpo hanno reso più dolente e sensibile: la grande Storia gli passa vicino, ma lui non sembra coinvolto in quella macina che trita uomini e popoli, quanto piuttosto nella storia piccola, che si esercita nel quotidiano con la violenza sui deboli e la cecità del caso. Una diversa materia. La sua irrequietezza non ha niente della inquietudine insoddisfatta del padre e del fratello, non è un puer economicus Giulio, né lo sarà da adulto, è l’uomo dei legami disinteressati e duraturi, a cui rimane fedele: i boschi e i piccoli animali da proteggere, il maso con la sua fatica quotidiana, la donna che ha scelto da bambino, quella creatura dura e fragile che il suo amore arriva a rendere luminosa, la madre non dimenticata a cui porta gli unici fiori della sepoltura.
Così nel naufragio finale, dove quella lontana ferita rimossa dalla famiglia torna protagonista, la silenziosa umanità di Giulio riaffiora misteriosamente fino a toccare chi è chiamato a prendersi cura di lui: i medici, l’ infermiera, la figlia adottiva e il fratello stesso, per i quali una situazione vissuta come una difficoltà personale o un caso clinico da risolvere, si trasforma nella “seconda opportunità” che la vita talvolta offre, forse effimera come una nevicata d’ottobre o forse portatrice di un diverso futuro.