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Il libro del mese di gennaio: Le conseguenze, di Richard Russo

Alla fine degli anni Sessanta il Minerva, nel Connecticut, è all’apparenza un college in tutto simile alle università della West Coast, in cui infuria la rivolta studentesca.
Come a Berkeley i ragazzi portano i capelli lunghi, jeans scoloriti e magliette psichedeliche. Nei dormitori fumano erba, ascoltando i Doors e i Buffalo Springfield. Il primo dicembre 1969, davanti a un minuscolo televisore in bianco e nero, in una stanza del college, tre di questi ragazzi, Lincoln Moser, Teddy Novak e Mickey Girardi, assistono, in trepida attesa, alla prima lotteria nazionale di reclutamento dei soldati che, estratti a sorte per giorno di nascita, vengono spediti in Vietnam. Come tutti quelli nati tra il 1944 e il 1950, i tre conoscono le possibilità che quel sorteggio riserva: morire di morte violenta in guerra, scappare in Canada o disertare e languire in una prigione degli Stati Uniti.
Al Minerva, i ragazzi sono noti per il profondo legame esistente tra loro. Tre moschettieri diversi eppure indissolubilmente uniti: Lincoln Moser, cresciuto in Arizona, è tanto bello da essere soprannominato «Face man»; Teddy Novak, figlio unico di due insegnanti d’inglese, è minuto, poco atletico e dalle ossa sottili; Mickey Girardi, che proviene da un quartiere operaio famoso per i culturisti, le Harley e le feste etniche, è grande più o meno come un armadio a muro.

Tre giovani moschettieri che, con il loro bellissimo d’Artagnan, Jacy Calloway, la ragazza della quale sono innamorati tutti e tre, formano un inseparabile e invidiato quartetto. La lotteria del destino è, tuttavia, in agguato, gravida, come sempre, di fatali e inarrestabili conseguenze. Continue reading Il libro del mese di gennaio: Le conseguenze, di Richard Russo

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Enon – quando ricordare è un arte (e di arte ne ha da vendere, Paul Harding)

Trovo l’incipit semplicemente eccezionale (e splendidamente dolorosa la scena nel parcheggio): eccoci qui a confrontarci con la realtà nuda dei fatti; è più facile far fronte a un disastro, un enorme dolore, una tragedia, se si riesce a considerare il tutto come un evento asettico, come se stessimo segnalando una notizia che riguarda qualcun altro. Ci aiuta a rimanere freddi e a dominare il senso di colpa, di solito ingiustificato. Come se fossimo osservatori della tragedia, piuttosto che farne. Le prime righe indicano al lettore tutta la storia e ne definiscono il personaggio (un sopravvissuto, non un eroe che ha vinto la battaglia). Poche parole, un sacco di vite (quella di Charlie, di suo nonno, di Kate…). A pensarci bene, tutte le storie si somigliano e cose simili accadono sempre, ovunque, a molti. Ma diventano uniche nel momento in cui ciascuno di noi le trasforma in ricordo, in memoria. L’atto di ricordare rende uniche ed eterne le cose: ri-cor-dare, cioè dare cuore nuovo alle cose, prenderle e portarle nella nostra intimità emotiva per farle emergere più pesanti perché si sono attaccate ad esse i nostri sentimenti e le nostre sensazioni ad esse legate in qualche modo diretto o indiretto. I ricordi dicono della cosa che ricordiamo ma parlano soprattutto di noi, del nostro legame con essa. Così ho inteso i flashback e le riflessioni che partono sin dall’inizio, non appena Charlie ci dice che Kate è morta. Se il passato e i ricordi sono un luogo sicuro per lasciarsi andare, per lasciare che i sentimenti prendano il sopravvento (e Charlie dice di saper ricordare benissimo), il presente deve essere sottomesso attraverso un distacco sicuro; non per niente Charlie è ironico ed è rivelatore il fatto che nella famiglia di Susan l’ironia non sia compresa, come se quei giganti finlandesi non fossero in grado di fare a meno della tangibilità, della praticità che nasce da una simbiosi con la realtà tangibile.

La morte un figlio sconvolge le leggi della natura (e la natura è uno dei personaggi più potenti del romanzo), l’equilibrio è rovesciato: è il Caos che invade e distrugge l’Ordine (quando arriva la famiglia di Susan, la donna torna ad essere figlia invece che madre lei stessa). I ricordi sembrano essere l’unica bussola rimasta per cercare di non perdersi sulla strada, sempre che ci sia ancora una destinazione comprensibile verso cui fare rotta.

Charlie non è un personaggio che suscita particolare empatia ‘di pancia’, perché il suo dolore non si apre verso l’esterno, ma si riversa verso l’interno. Non permette che abbiamo pena di lui, non piange se non raramente e con vergogna se è in pubblico, non chiede di essere consolato. E’ paralizzato da un dolore che non sa come esprimere o gestire. Per questo semplicemente, non fa. Si ferma, come un orologio che si è rotto perché qualcuno ha voluto muovere le lancette nel senso sbagliato. Quando ci prova, si spezza (la mano – che diventa una ennesima circostanza per un flashback e ricordare Kate viva). Sa però muoversi nel passato, nel “prima”, quando ancora c’era ordine, e appena può fugge via da una realtà in cui il ricordo non è intimità e non porta consolazione (come quando si ritrova con la famiglia di Sue).

In fondo, Charlie è sempre stato più orientato all’indietro o forse solo alla fuga dal qui e ora: la lettura è per lui vero escapism, vuol dire uscire dalla realtà e avventurarsi in un altrove che ama, mentre la scuola è noiosa, Charlie sembra non essere capace di inserirsi nella realtà codificata, pare non essere mai in grado di concentrarsi sulla realtà dell’hic et nunc. Persino per capire la propria stessa esistenza ricorre ad un artificio che Harding costruisce con genialità e porta avanti qua e là nel romanzo: vede la propria situazione da estraneo, è un attore che fa la parte del marito, così come per Sue c’è un’attrice; con un copione, un palcoscenico e un pubblico.  La propria esperienza diventa esperienza teatrale del pubblico che assiste alla rappresentazione. E’ come se Charlie ponesse tra sé e la vita reale sempre più filtri.

La morte di Kate obbliga Charlie a venire a patti con la sua vita fallimentare, a cominciare da un matrimonio senza senso: lo dice il passaggio in cui Charlie descrive se stesso e Sue come due individui uniti dall’amore per Kate. E la vita di Charlie scivola nell’abisso della dimenticanza di sé, dell’auto-annientamento… ma anche della ricerca di una modalità che gli renda sopportabile la vita senza Kate e il ricordo di Kate nella sua vita.

La natura, che è quasi un correlativo oggettivo dello stato d’animo di Charlie, si perde e sparisce con la progressiva decomposizione della coscienza di Charlie. Fino ad arrivare alle pagine finali, in cui la discesa agli inferi è talmente veloce da necessitare un linguaggio altro e una serie di metafore non più ‘naturalistiche’, bensì decisamente oniriche. L’ultima cena nel mondo all’incontrario inventato da Charlie per Kate morta, l’arrivo dell’uragano, sono il segnale che Charlie ha lentamente compreso come devono essere i suoi ricordi per Kate, come gestire questa vita nella morte e morte nella vita. Poco per volta torna la natura, torna la coscienza di Charlie che smette di inventare e torna a ricordare, nel senso in cui dicevo sopra. Allora, seppure la morte rimane morte, l’assenza rimane vuoto, il dolore al massimo diventa un’abitudine ma è lungi dallo scomparire, arriva per Charlie la consolazione:

“As upsetting as these meetings are, there is consolation in them, too—real joy at seeing my daughter—whether they anticipate an eventual reunion or are just figments that comfort me once in a while until I, too, simply cease and there isn’t a soul left in Enon or anywhere else on this awful miracle of a planet to remember either of us”

E Charlie sa che deve farsela bastare.

Da leggere, dopo Un lungo inverno, e prima dell’annunciato volume, ultimo della trilogia della famiglia degli orologiai un po’ sfasati.

PS: speriamo di poterne parare con Harding direttamente, che sarà a Como o da quelle parti a giugno, ho sentito…

 

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